30.12.11

PER TE CHE NON HO SENTITO

“Sai, quando tornerai io sarò già via, senza un’idea…”


Scrivi, Ho le tasche piene, dopo quattro date di seguito,
le tasche piene di piccole poesie che continuano a darmi alla fine dei concerti.
Penso, Ho rischiato anch’io qualcosa di così pateticamente ingenuo.
Ma tu stasera avrai suonato, ormai, nella città in cui sono nato  
ed io me ne sarò già andato
per non gualcire quella pagina chiusa con cura nel cuore,
quella pagina che appartiene solo alla scorsa estate, eppure,
dove tutto ancora, dalle tue parole fuori d’ogni canzone
al pubblico ineluttabilmente allineato
ma in arroganza e banalità elegantemente moderato,
tutto s’è librato altrove,
via dalla feroce, infaticabile fame della delusione.
Sento, velenosa ironia, Non hai mai avuto un’età per stare sul palco,
non ne hai più una per starvi sotto.
Come se ci fosse un’età cui è concesso essere patetici,
nel nostro mondo di patetismi obbligatori
fino ai giorni delle carrozzelle mosse da ucraine amarezze.
Come se essere patetici in gioventù,
fingere di non riconoscere la speranza, non più,
quando ancora c'è un orizzonte in cui provare a scorgerla, laggiù,
fosse un peccato meno mortale, contro altro da se stessi.


A Vasco,
noi figli che non avremo

29.12.11

RIFRAZIONE D'AUTORE

Vitale ad un'arte che sia tale
è il narcisismo d'autore,
l'autobiografismo esistenziale,
quando si compia quell'impresa anelata
o quel miracolo inatteso 
dell'universale luccicanza nel particolare.
Come il cielo che per eletta vocazione
dona vita e destino alla luce del sole.

28.12.11

BAMBOCCIONI
 

Ad una profetica articolata barbetta
di compassato sociologo accademico
- toscanello barzotto e platee in umor di menopausa

Ad un argenteo cirro negletto
- nostalgia di zingare felicità
dalle colonne del gruppo L’Espresso
alle filiali tesi dottorate
di proli disinvoltamente emigrate

A tutti i gaiamente isterici,
frivolmente viziati sacerdoti ultimi dell’intelletto
che suadentemente insistessero,
scortati con discrezione dalla bianca violenza dei dati statistici,
sulla nefasta influenza d’un genitore
d’ultima ed irripetibile piccola borghese stagione
sull’innocente volenterosità d’un figlio vanamente dottore

Ad essi chiederei,
nel cieco e monco livore di chi osa poiché sa
che mai realmente lo potrà,
come quella patetica mai giovane prole avrebbe potuto tessere
un filo di spina dorsale cui aggrapparsi per non mendicare
il calore solo che un imploso sociale in cuore ancora possa celare:
brace tra le ceneri del desco famigliare.

Affannandosi per tutta la vita davanti,
la vita tenacemente longeva dei suoi genitori,
a non scoprirsi troppo indegna di quel primo ed ultimo amore
in cui poter sperare, intuitivamente conscia d’esser amata
entro i confini, i bisogni dell’amante cui si è consegnata,
dai quali troppo non si voglia allontanata.
Dove, ancora, fabbricarsi mani robuste, di fibra forte
come le valigie dei tempi del vaiolo,
prima che morte, fame e guerra mondiale
venissero esportate senza reso tra quelle piccole vite lontane.

In quale mondo, infine, scappare
insieme alla maggiore età con cui dividersi fumo e pane.
E come se non dovesse la propria venuta al mondo
al silenzio complice della maggioranza, alla raccomandazione
nel voto alla Madonna in parrocchia, nel voto di scambio in sezione,
lasciare dove non volersi più voltare,
saper dimenticare con la grazia di chi non vuol più ricordare
quell’ultima tenace velenosa utopia
maledetta dalla stessa longevità della gobba più nefasta alla Democrazia.


A chi decide d’economia senza intristirsi nei discount,
a chi profetizza di sociologia senza imprecare alle fermate d’autobus,
agli applausi d’ogni pubblico pagante


27.12.11

MA COSA STA DICENDO!

Ripropongo  di seguito queste righe scritte in occasione dell'ultima sua sortita pubblica cui ebbi la ventura di assistere. Se n'è andato uno dei pochi che ancora potesse dar vanto e orgoglio alla sempre più "creativa" professione (di fede?) giornalistica, indubbio, ma cerchiamo per una volta, almeno su queste pagine, di non cedere all'italica vocazione agiografica. Non è del resto di uomini senza macchia che avrebbe bisogno un mondo che si volesse meno iniquo, ma anche soltanto di uomini. Arrivederci, Giorgio Bocca. Il suo Noi terroristi mi ha spiegato l'Italia di quegli anni dal punto di vista che non avrei mai voluto avere, ma che dopo la lettura del suo libro non ho potuto che rispettare: come un vecchio e dignitoso nemico, come ogni padre.

27/12/2011


Giorgio Bocca sostiene che se potesse strozzerebbe l'avvocato Ghedini.
L'avvocato Ghedini sostiene che certe esternazioni istighino all'odio.
Il sottoscritto sostiene che non istighino proprio a niente: gli anti restano anti e i pro, pro.
E se anche qualcuno avesse lo slancio di cambiare squadra, non so quante forze gli resterebbero, poi, per mettersi pure a odiare.

Confronti come quello di ieri, con un Bocca stancamente savonaroliano contro un Ghedini odiosamente professionale, al di là degli effetti sull'ultima fatica editoriale del primo, credo servano solo a regalare a certi mascalzoni, per dirla con lo stesso Bocca, ampi spazi per le loro esposizioni di civiltà a caro prezzo: pagato, nella circostanza, da quella che è stata una indiscutibile penna pensante, prima che tuonante.
E che forse, complici anche gli equilibri di forze che stagioni democratiche e stagioni della vita giuocano a sparigliare, dovrebbe iniziare a pensar meglio le proprie sortite tra i farisei nelle piazze di mercato.

5/2/ 2010

25.12.11

UN PAESE PICCOLO PICCOLO

Vedo Sordi in borghese per non so quale ennesima volta.
Mi accorgo ora di quanto atroce sia quell’incompiuta attesa di tragedia
prima che la morte si prenda la scena.
Vedo mio padre e mia madre, in tutti i padri e le madri
che avrebbero potuto prendere il loro posto.
Tutti i padri e le madri come loro,
nascosti in altre case, mascherati d’altre vesti, assolti dietro ad altri ruoli.
Mio padre che dimentica i libri ad ingiallire, che provoca fingendo di non ricordare,
ripetendo ‘Che vuol dire? Ogni anno viene un 12 dicembre!’
Mia madre, decorosamente servile nel suo mai sapere,
timidamente fiera di aver voluto solo lavorare, saputo solo sacrificare:
con generosità tale da poterla tramandare, costringendomi a ereditare.

Poiché vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che nulla cambi.

24.12.11

STAZIONI

Se vero è che sono nonluoghi,
vi si potrebbe abbandonare
forse il peso di sé:
per conoscersi, o scordarsi.

23.12.11

DISSETATO D’ARIA

Non ho altri ricordi d’armonia
con tanti dei miei simili
come quel giorno di sole, vento e nuvole
a rincorrersi nel cielo di questo cortile.
Inseguirsi come ogni bambino di noi
senza davvero volersi raggiungere,
cercando gli altri senza fuggire, spaventati, da sé stessi.
Cavie in una ruota, questo eravamo,
ma quell’età ci ha concesso di vederci
solo al termine della sua crudeltà.
Io avevo sete, ma non volevo lasciare il cortile,
dal gioco già uscire:
un’intuizione, l’ordine del mondo ti farà sempre pagare,
e in un bambino è capriccio a farsi chiamare.
Così correvo più forte, a bocca aperta,
che quel vento fresco mi dissetasse, facendomi restare.
E rimasi fino in fondo, finché tutto si spense come se mai fosse iniziato,
come se il cortile quel silenzio fosse sempre stato.
Lo raccontai, gli occhi ancora colmi, a mio padre:
‘Quanto sei fesso, potevi andare a bere!’
Mio padre…
Mio padre, che parlava rado e ruvido
e, mi dicevo, per questo spesso sbagliava.
Mio padre, che sempre fotografava:
per capire chi fossi, credevo,
ma ora dico per ricordarmi... così come mi voleva.


22.12.11

IL SILENZIO DEI MAI INNOCENTI

"... Non è così che se ne andrà."


Io, certo timido impaccio femminile,
intimamente sentito o spudoratamente esibito,
alla fine credo di averlo compreso, in parte anche difeso.
Ma dal mio nevrotico ergastolo di colpevolizzazione,
quegli occhi bassi o sfuggenti, quelle risposte cautamente misurate,
quell’addestrata rinunzia censoria ad ogni slancio primitivo
e poi in un niente, assurdamente, ad un qualsiasi rifiuto sconveniente,
non mi sono mai arreso a tollerarlo.
Davanti a tali ambizioni d’agnelli sacrificali,
tutte così cristianamente uguali, provinciali,
fossi rimasto, come tanti avrei forse scopato, persino goduto...
certo non amato. Cosa ci sarebbe stato da amare?
Ma ho scelto comunque di non scoprirlo, io non ero portato.
E' così che me ne sono andato.


21.12.11

PAZZA?

- Buongiorno, avete eskimo?
- Finiti, mi tornano per Carnevale!

20.12.11

OSTINAZIONE D'ORFANI

- ...Raccontare gli anni di piombo, ma a chi frega più? 
- A me. 

19.12.11

GLI ANNI INGIUSTI

"C'erano due ragazzi allora nella città, ed erano amici la notte e il giorno.
... Forse, furono proprio quelli gli anni giusti: 
gli anni in cui quei due individui camminavano nelle strade, nelle piazze e nei giardini della loro città."



C'era voluta la scuola, lei ed i suoi anni, 
per tenerci ancora insieme,
al di fuori della stupida crudeltà
di quel recinto mondano 
che già scalpitavamo per disegnarci intorno
tra le luci e i fumi della notte da grandi.


Poi, saremmo stati sconosciuti.
Presto, si sarebbe stati sconosciuti,
ogni giorno,
per tornare amici alla sera.
Dentro bar non più popolari 
dove la birra si divideva.
Ciarlieri sentimentali
finché c'erano bottiglie da scolare,
tazze da far schioccare, 
pacche, abbracci come ore, anni 
da consumare.
Soltanto al tramonto, 
nutriti d'alcool, di nuovo incuranti, lontane
diarree, emicranie, solitudini o grida di madri,
una volta ancora incoscienti del domani
che puntuale e zelante, implacabile come un esattore,
avrebbe bussato negli intestini, sulle fronti,
tra spiragli di tapparelle, ai vetri delle porte.
Solo ormai gonfi e caldi,
su lingue estranee come da calmanti,
la vita e il suo senso si dovevano nominare, inquisire, condannare.


18.12.11

AMANDOTI NEI TUOI AMANTI

“Sarà vero che l'amore viene al mattino, presto, che ti sorprende nel sonno
e ti svegli e tutti gli uomini di prima sono andati e forse muoiono?


Ora che ti amo. Ora che so di amarti
continuando a rivederti in tutti i tuoi amanti,
ad immaginare ognuno dei tuoi risvegli, amari rimpianti:
le sembianze che affiorano dai miei più precoci, tenaci turbamenti.
Mille musi aguzzi di predatori nervosi più che muscolari,
ereditati da qualche genitore uso, a suo tempo,
a bramare più che desiderare,
sotto spoglie di giovinezza
adagiato in comuni o occupazioni,
penetrato come ladro nella casa del pastore,
infiltrato nei cortei da eterno servo del padrone.
A predare quell'innocenza colpevole, superficiale
di giovani donne mancate così disperatamente affannate
a scacciare l'informe pensiero che nulla, non da loro né lì,
si potesse più cambiare.



17.12.11

WAR IS OVER
 

Si avvicina, ogni anno più puntuale,
beffardo, grottesco, il santo Natale.
Portando con sé i nostri riti famigliari
così solennemente obbligatori, silenziosamente accusatori;
recitando i nostri riti sociali,
sublimando i nostri reciproci sacrifici sacrali.
Natale, derisione del Cristo nel cristianesimo.
Natale, mutilazione dell'uomo nel capitalismo.
Eppure, ancora, questi giorni di lunga e lenta vigilia
che preannunciano il Natale,
così come quelli che conducevano alle vacanze estive,
continuano a colmare misteriosamente il mio cuore.
Come la sola attesa sa, 

speranza di ciò che mai si compirà.


16.12.11

MARE NERO
 

“Guarda, Sophia, guarda la vita che vola via!”


I tramonti estivi nei miei occhi di otto anni...
Quando le spiagge tornavano spoglie,
restavano silenziose
come mute illusioni di primavera:
a lasciarsi perdonare in un attimo
quanto vennero a me minacciose,
a lasciarmi scordare per un attimo
quando sarebbero tornate impietose.

I tramonti estivi nei miei occhi di otto anni...
Quando la luce moriva piano,
solo un'eco nella penombra di lontano,
da nudi cieli immensi a nuvole in orizzonti
come fragili, maestosi profili di monti.
Quando la notte buia ed eterna del mare
era l'abbraccio di giovani corpi a rifugiare
amori senza confini ad occhio umano
come il sole nel suo riposo arcano.

Nei miei occhi di otto anni,
io li avrei custoditi fino alla fine, nascosti
là dove la luce non possa spogliarli

della loro innocenza di carni pure, ardenti,
non ancora solcate dalla cruda nostalgia:
lama che lacera la giovinezza
orfana d'una vita strappata via.
Nei miei occhi di otto anni,
io avrei continuato a cercarli
oltre il pudore dell'età matura,
la vergogna di sé riflessa negli altri,

mutui specchi di muta disillusione.
Avrei potuto per sempre trovarli
oltre la mia speranza ancora ignota d'un amore

presto scordato nella prigione d'un fragile pallore.
E questa sola vecchiaia
a cui chiedere un giorno liberazione.


15.12.11

IL MIO PICCOLO GETSEMANI
 

"Non importa... Sulla mia terra, semplicemente ciò che sono mi aiuterà a vivere."


Io cammino ancora lungo quel viale,
in quel lungo silenzio dove rivedere mia madre
fuggita in provincia dalla condanna capitale,
esiliata a dieci chilometri d'asfalto per lavorare.
Mia madre che al mattino non spegneva il motore
nel consegnarmi al custode della penombra d'un androne,
come a sera nel mio letto non stendeva le gambe 

nell'affidarmi al sonno, che mi accompagnasse al fondo della notte.
Io, nel mio cappotto stretto come un racconto russo,
la cartella tormentata da dita esangui
d'impiego statale che mai avrei ereditato,
la colazione ad attendermi nel lino tenero e immacolato:
i miei soli legami famigliari,
primi ed ultimi documenti d'espatrio
dal nulla incurante che mi avrebbe rapito,
l'anonimato orfano in cui un giorno sarò svanito.
Io, la fronte fredda su quella vetrata
di forme e colori senza gioia né scampo
alla mia coscienza ormai nata
dove cercare d'intuire, tra chiassosi rami d'un tratto muti
come divi immortali senza ritorno decaduti,
ciò che nelle feritoie dei giorni, negli angoli degli anni, 

paziente mi avrebbe atteso.
Fu nell'agio da rampollo di casata o erede di dinastia
di quei minuti soltanto miei, quei minuti lenti, pazienti e muti,
che morirono i semi di questo decadentismo maturo.
La timida consapevolezza,
mia prima ed ultima ispirazione,
della sola vera vocazione...
quella tristezza.



A Pier Vittorio Tondelli,
1955 – 1991

14.12.11

In coda a questo pezzo essenziale, perfetto, un urlo d'ulcera così lacerata che non ricordavo dai tempi del A denial! di Cobain. 
A chiudere Smells like teen spirit, con tutto ciò che, allora, c'era da dire.


13.12.11

I MIEI CAFONI

Arrivano negli atenei
da estreme periferie geografiche o culturali
gonfie d'opulenza della più venefica,
d'istituti professionali, licei fantasiosi o ginnasi decaduti
intrisi di docenti pavidi, professò menefreghisti,
compagne dolenti come mogli di camorristi,
compagni feroci come figli di scafisti:
orgoglio di padri commercianti o liberi professionisti.
Li riconosco dai loro abiti offensivamente costosi
nel cattivo gusto o nel trasandato più artificioso,
più spinti dal perfido capriccio annoiato di un qualche nome stampato.
Sembrano capaci solo di smaniare, mai di soffrire: neanche il freddo,
sfoggiando ultime magliette e tatuaggi senza soluzione di stagione,

ardendo d'ormoni, postumi di cocaina, traditi riflessi d'estrazione contadina
ormai indistinguibili nel benessere bruciato in ogni bilocale surriscaldato. 
Li osservo sfilare ciondolanti, in pose da indossatori ridotti a figuranti,
su gambe ipertrofiche di trequartisti mancati, gambe incapaci di posa
quanto le labbra lucide e carnose di maschia ibrida rosa
nel seguire il filo ingenuo e fragile dei pensieri
dagli occhi rapiti nel laptop o smartphone d'ennesima generazione:
finestre spalancate senza timore
sul vuoto dei loro desideri mandati a memoria
o, fatalmente, smarriti e singhiozzanti nei vicoli ciechi della nostra Storia.
Li conosco, non sopravviverebbero ad una mattina senza fumare,
una sera senza telefonare, una notte senza eiaculare,
perché per loro non è che corpo,
nella fiera ubbidienza o solerzia d'allineamento all'imperativo estetico sociale,
nessun tremore di paura, malinconia o pudore,
l'odore, prima ancora della vista, di questo mare.
Un mare nero affogato,
ferito, per sempre imprigionato
come i loro occhi che mai saprebbero fermarsi a piangere, ricordare,
anche solo immaginare.

Ma più che vederli come sono,
forse sono io che li voglio immmaginare:

perché, in qualcosa diverso da loro, io non dimentico il timore.

12.12.11

L'ALBA DEI SERVITORI

“La festa appena cominciata è già finita.”


 
Com'era quieta...
l'avremmo ricordata così 
fragile, inoffensiva quanto una bambina.
Soltanto noi, i nostri occhi bassi di pudore
tra qualche ultima gualcita divisa 
ormai corta su polsi stremati tra flûtes non finiti,
smarriti lungo selciati umidi, appena lustrati...
Milano quella prima mattina.
Io e te, le tempie libere dalla prigione d'alcool,
gli occhi vuoti di luci, le orecchie sorde
al rumore più di grido, più disperato,
per poter cercare, ancora, l'eco di quel “vecchio boato”
e continuare a camminare, parlando fino alla fine
di quel 31 dicembre
dove tentavamo di non guardare l'inizio di quell'anno
che sarebbe seguito, per non vedere che il buio 
delle nostre solitudini.
Così come a quel 12 dicembre
chiedevamo di non dimenticare il nostro paese
mai nato, insieme agli anni che avrebbe generato.
Dove ci avrebbero messo al mondo, condannato
con l'ostinazione che appartiene al coraggio come all'incoscienza...
Fino a scoprirla così minuta, dimessa e composta,
alle spalle del Duomo e tutto ciò che sempre resta da bere,
quasi nascosta piazza Fontana,
ai nostri ricordi di nostalgici provinciali,
dai nostri libri usati di demodé sociali, apparve umile e fedele,
anonima come un servitore di dicasteri, come un anziano, ormai curvo cameriere
cui si ordina d'istinto, senza guardare, in ogni compassato salone del Potere.


Ad Enri,
in tutte le cose che non gli ho detto
e che ancora non ho compres
o

11.12.11

NARCISI APPASSITI

Quanto deve umiliarsi,
pagandone il prezzo che non ha,
un uomo non più giovane,
forse mai bello nè ricco, potente,
che non finga insensibilità o paterna benedizione 
a tutta quella carne in fiore?
Giudichiamo la nostra pietà, prima di condannarlo.
Soppesiamo libbra a libbra la nostra umanità
residua nel proclamare estraneità,
indifferenza a tutto ciò che è nell'uomo,
l'altro, sempre, in noi. 
Ma chi di voi è senza pene, scagli per primo la pietra su di lui!

8.12.11

SPAZIARE

Incontro un tale, telefona coram populo in abiti e pose di compulsiva arroganza, da broker minore; mi costringo a riconoscerlo, era il fidanzatino di una mia compagna di scuola: ricca lei, anzi “benestante” come usava discernere allora la buona borghesia moderata o progressista; impegnato a fondo, lui, a non sembrare da meno, illudendo se stesso per ingannare in modo convincente gli altri, spiegava con mal assimilata indifferenza di gettare gli spiccioli troppo minuti, che gli ingomberavano le tasche. Fu quella coppietta, senza futuro come tutte in quegli anni in cui qualcuno ebbe l'unico futuro, e senza presente come molte unitesi da quartieri troppo lontani e famiglie troppo simili in potenza ma diverse in atto, che mi si parò davanti all'uscita, solitaria come l'entrata tre anni prima, dall'esame di III media. Lui non apparteneva alla conventicola dei miei odiatori gratuiti, gli bastava avermi archiviato come innocuo o impotente intralcio ai suoi scopi, per dispensarmi finanche cordialità, in simili occasioni socialmente non compromettenti.
Facendosi portavoce di entrambi i cuori, certo a mio beneficio palpitanti all'unisono, mi chiese dell'esame: rimane ancora oggi una delle rare occasioni in cui una domanda sulla carriera non tradì palese disinteresse o astio mal celato, a seconda dell'esito della sommaria comparazione interiore in simultanea. Risposi che fortunatamente non era stato all'altezza dei penosi stati d'animo che l'avevano preceduto nelle ultime settimane: dopo aver risposto ad una prima domanda vergognosamente generica, avevo “spaziato” collegandomi agli argomenti delle altre materie, senza interruzioni fino al frettoloso congedo ricevuto. Sentendo che avevo “spaziato”, lui rise di cuore, forse riuscendo ad ingannarmi di averne uno: 'Spaziato, io non c'avrei mai pensato... cioè, perché non so manco che vuol dire!' Questo sembrò autorizzarmi ad una risata, che consumammo collettivamente, salutandoci tutti e tre, probabilmente per sempre.
Quando l'ho rivisto, ho pensato che tutto ciò che allora non sapeva deve averlo ben imparato, o qualcuno deve averglielo spiegato, se ora lui lavora in una banca mentre io, ormai quasi alla seconda laurea, sono ancora disoccupato.


7.12.11

Dell'utopia

"... Nel rifiuto del modello di sviluppo di una società disuguale e piena di contraddizioni sociali che ha creduto nel consumismo come soluzione di problemi lasciati invece marcire, ha mitizzato un falso boom ed è già alla vigilia di una crisi profonda."

La forza della democrazia, 1977 - Stajano, Fini 


Scovato come molti tra le carte paterne, consiglio questo meravigliosamente datato (nel più nobile senso di in medias res) e insieme metatemporale documento sulla storia di un Paese che qualcuno ancora si ostina, con miopia da maggioranza silenziosa delle più conniventi, a considerare di democrazia fragile poiché ancora giovane, e qualcun altro ama accusare di ladrocinio di un futuro, invocato da occhi sempre vittimisticamente stretti sul presente, mai aperti sul passato. La forza della democrazia invocata nel titolo, per quanto mi riguarda resta tale, sottraendosi ad ogni mortale saccheggio retorico, solo identificandosi con la forza dell'utopia: quell'orizzonte di Bakunin, qualcosa di inafferrabile che esiste non perché lo si raggiunga bensì perché se ne senta il richiamo, e verso di esso ci si protenda, una vita intera dopo l'altra.

Al compagno Pinelli, perché non si dimentichi, o si impari una volta per tutte, che "Anarchia non vuol dire bombe, ma uguaglianza nella libertà".
Ed a mio padre, Libero come i figli degli anarchici, che come deve ammettere anche lui forse un giorno morirà, ma rimarrà per me in tutti i libri che non mi ha mai messo in mano, ma ha lasciato che trovassi da solo, per poterli poi stringere più forte, come le idee.

5.12.11

IL BASTONE DEL PADRONE
  
Abito in una vecchia casa infestata 
d'untuosi fuoricorso fetidi come squittii di roditori.
Abito in quella casa ma mi ripeto di non esserci:
perché ho bisogno, per restarci, di pensarmi altrove
perché, filosoficamente, il mio non potrebbe dirsi essere.
Né per il mio padrone di casa, che pago sempre al nero
né per il mio padrone di lavoro, che quando può al nero mi paga:
io non esisto per loro, non devo esistere nell’unico mondo possibile,
il mondo del lavoro. Se un giorno per disgrazia salterò in aria 
o volerò al suolo, per un giorno esisterà il mio nome.
Ed ormai mi inquieta più questa vecchia caldaia
ronzante come le mosche estive in cucina
che quegli orchi di metallo ghiotti di falangi nell’officina.
Questa mattina, chiedendomi ancora se lavarmi e perché,
fissavo il rigagnolo tiepido del rubinetto dove
il tisico impianto non arrivava più a pompare con quel vecchio ardore.
Quel timido ma insistente filo trasparente
mi fece pensare all’anziano pene convesso del padrone:
stremato finanche nell’amor proprio,
piegato ma ancora, fino in fondo, arrogante.

4.12.11

ECO DI FOGLIE

“Quando mamma mi spiegava le cose, io le capivo sempre.”


Avrai ancora pensato
a quell'albero della tua casa...
Al buio del suo ventre cavo
- avevamo anche noi un cuore, troppo giovane
per poterne incidere la carne -
dove gettavamo dita incredule di mani esitanti
tra le parole che sapevamo solo scriverci,
sussurrarci forte perché distanti.

Quell'albero caduto, quel giorno, mozzato:
abbattuto come un uomo da un soldato...
Ed io, di vergogna come speranza ormai spogliato,
le nostre ultime parole ho pregato.
Che insieme alle sue foglie
siano volate lontano da questo immoto marcire,
come te, quel giorno, prima di morire.

3.12.11

MI DICHIARO PRIGIONIERO POETICO

A chi ancora non abbia lavoro,
quest'alibi incrollabile d'ogni omicidio personale
A chi ormai abbia finito di cercarlo
perché stremato dal proprio disgusto
o per solo etico, individuale atto estremo di lotta sociale
A chi non sappia ambire a produrre
più di quanto non consumare...
Ogni pensiero, speranza, nostalgia, parola
sull'uomo e la sua assenza verranno cacciate in gola
dalla società, quell'operoso consorzio di simili alleati
che si governano a vicenda, nel fiero sdegno della propria essenza,
nell'inappellabile condanna di quel pensiero, la sua oscena esistenza...
A chi non abbia ancora un ruolo,
la sola sorte di braccato sovversivo
nella clandestinità poetica del restar vivo.
E se mai un giorno, per imperdonabile candore
di figlio, invocasse dignità all'incomprensione d'un genitore,
l'avrebbe forse condannato a suo più pentito delatore.


2.12.11

L'UOMO CHE TORNERA'

Non nascerebbero versi 
senza la sofferenza
solo perché nella sua assenza
vite non potrebbero aversi.

1.12.11

LA PIU' BELLA ILLUSIONE

Fa male, dover vedere un Alain Delon
bussare da un Costanzo, per mendicare
Fa male dover rimpiangere la sua giovinezza
nelle foto da profumerie di centro commerciale
Fa male, non poter che accettare
che la Bellezza non assolva, prima di non salvare.

Lì, da quell'oltreconfine
- come sempre nella sua alterità più civile -
in cui preparava l'ultima discesa ingloriosa,
l'avranno con dovizia male informata, Monsieur Delon:
ad accoglierla non avrebbe trovato
solo un pingue, famoso giornalista
ma anche un bigio, famigerato piduista.
E non sempre, creda,
pur in questa cronica Cisalpinia
ci si rassegna a che l'un con l'altro coincida.