31.5.11

I DENTI

I miei denti si consumano.
Si assottigliano, inesorabilmente.
Cerco ormai di evitarli
ma sono lì, che mi fissano.
Che mi costringono a guardarli.
A trovarvi la metafora, in trasparenza.

30.5.11

Solitudine di poesia:
voce di chi solo, muto
vive.

29.5.11

L'UOMO ALLA PORTA

L'uomo alla porta era nero
- d'Africa, credo.
Una mano cruda, solcata;
come resina il palmo 
stretto
oltre le sbarre del cancelletto.

Comprata una tovaglia per cinque commensali
per cinque euro, senza trattare
- è da bambino che non lo so fare,
dai tempi dei braccialetti, del mare
Mi sono sentito al mio posto, compiuto
- come in un silenzio suburbano 
ronzio di innaffiatori, lontano.

E' durato uno scarno minuto.

Poi mi sono chiesto, solo
se quell'uomo nero non sarebbe tornato
a vendicarsi, a violentare
ciò che abbiamo, o che siamo.

Solo chiesto se, e perché.

Ho rivisto quella mano, le sbarre...
l'ingresso sul retro è bloccato, davvero;
è bloccato, ripetevo...
Mi avrà creduto?
Spero.

28.5.11

FUORI

"Dicevi che il litio ti aveva cambiato.  
I tuoi pensieri erano puliti, adesso, ma sbiaditi.
Come vecchie lenzuola stese al sole ad asciugare"


Se i matti soffrano non so dire.
Non ho capito, qui dentro, molto più di fuori.
Entrambi hanno recitato, per i miei occhi.
Quelle corsie, quei cortili
teatri del loro riso senza luogo, del loro pianto senza tempo.
Queste strade, queste case
dove altri ruoli vestono medesime finzioni.

Ma allora non m'importava, 
io chiedevo solo quiete 
a quella piaga che nella fronte mi pulsava.
Invocavo la pace delle preghiere infantili
in quel mio confino, nella quarantena
cui credevo d'aver condannato 
tutti loro, rimasti fuori.

Un limbo coatto che durò un attimo:
ad attendermi alla dimissione
il purgatorio della terapia di mantenimento.
Riconsegnato al mondo conservatosi sempre uguale:
eternamente giovane, infaticabile nella sua maledizione;
accanito quasi distratto, d'abitudine, sulla mia infezione.
Mondo d'eterni sguardi su cui misurare 
goccia a goccia, grammo a grammo
la propria pazzia, o dannazione.

E tu, i tuoi occhi impotenti in cui lasciasti sfilare la lettiga,
nel dolore crudo, traditore di chi vede andare 
un figlio che è militare.
Tu che mi hai guardato senza più occhi, 
tu che mi hai ritrovato nell'infantile attesa
con cui si sopravvive ad una guerra finita.

'Hai avuto paura?'
Questo ripetevi, questo solo sapevi dire.
Io parole non seppi, non volli trovare:
mi lasciai trascinare, sotto braccio, nel bar più vicino 
per un caffelatte caldo, tardivo.

Oggi a quelle tue parole sbiadite, che tanto ho fatto per non sentire
trovo risposta senza coraggio.
Se l'avessi, ti vorrei dire:
'Ho paura, qui:
fuori non si può uscire.'


All'immensa solitudine dei padri

27.5.11

STAZIONE – VENERDI’

Ad ogni arrivo
strappavo e gettavo in fretta
il biglietto d’andata.
Ritrovarlo per caso sulla strada del ritorno,
sfiorare senza volerlo
i suoi ingenui fremiti d’attesa
ormai pateticamente gualciti
E’ fissare il viso 
un tempo desiderato
invaso da rughe fonde, impietose

Suona intollerabile,
una feroce risata.

AGIRE, TRADIRE

"Accettare tutto non rende tutto accettabile"


Se c'è un lascito nel vangelo razionalista:
ogni causa nasce con il suo effetto.
Ogni atto con il suo autore.
Che ne è padre, responsabile: 
traduttore nel reale - prima ed oltre ogni morale.

Un lascito che questa cultura stenta ad accettare:
noi tutti, vicini come lontani dall'altare.

Per noi un uomo può agire e decidere, 
insieme, quanto l'atto sia reale:
tacendo, recidendo quel legame causale.
Mutilato del suo effetto, l'atto non esiste
al di fuori del reale creato dal suo padre.

Quanto di più onnipotente
possa esperire essere vivente:
decidere la propria azione, 
decidere se esista
e dove. 

Accompagna l'onnipotenza
la più cupa solitudine d'esistenza.
Mutilatosi d'ogni legame 
con il consorzio umano, 
l'uomo è solo nel suo reale.

E' la solitudine del tiranno,
la solitudine di Dio.
Ovunque, qualora 
egli sia.

26.5.11

GIUDIZIO UNIVERSALE

Padre, perché mi hai abbandonato?
Avevi promesso, tu non mi avresti mai lasciato.
Tra tutti i tuoi figli ero l'eletto,
l'unico che lenisse la nostalgia
di ciò che perdesti con la mia età.
Che a lungo, invano atteso
mai allora ti fu dato
Che in me si era compiuto: per noi,
noi che senza vedere avevamo creduto.

Padre, anche la tua profezia ormai è compiuta.
Ecco, io vado come agnello in mezzo ai lupi.
In nome tuo perseguitato.
Vado a loro che gridano giustizia,
rabbia di chi non crede né sa vedere
dietro ad ogni volto l'unico amore.

Padre, ora che la tua voce
è lontana eco in questo cuore,
un'assenza su questa carne
la tua mano, il suo calore
Temo il tornare a loro,
imparando a dimenticare
ciò che tu, solo,
mi insegnasti a guardare.
Imparando la loro vergogna che nulla lascia capire.

Temo il dover dimenticare,
un giorno dopo l'altro
il tuo volto ormai pallido, freddo
come un foglio di giornale, come quel tg serale.

Nel solo mondo in cui ci vogliono:
giustizia, rabbia
serrano la mia, la tua gabbia.

23.5.11

SE MAI
 

Se mai la donna guardasse l'uomo
Se quei due rivali carnali
capissero chi sono

Oltre la superficie familiare
d'una timida intimità infantile
Al di là delle perentorie conclusioni
d'un accumulo disperato di corpi
- smania mai sazia di calore
 

Nei loro occhi, liberi per un giorno
dal cieco, bestiale richiamo dell'umano,

avrebbero il riflesso delle sbarre 
che questo ha eretto intorno

La prigione della coazione:

primaria, arcana alle gracili angustie
dell'intelletto, della religione.

Dove misurerebbero passo a passo
il perimetro delle loro esistenze
Toccherebbero la libertà
nuda, reale nella sua negazione
- sciolto il velo, l'illusione 

d'ogni libera concessione.

Scoprirebbero la carne 

nel loro sesso, nel loro cuore.
E l'anima, che è in essi
non altrove.

21.5.11

L'ODORE DEL TUO SAPONE

In quel tappo stretto bene
nel tuo bagno, al risveglio
dalla prima notte insieme

Tocco, ordino
ciò che scivola, scorre 
in questo vento interiore

Come pioggia, come tempo

Vorrei stringere tutto, dentro
che non coli via dal cuore.

20.5.11

IL SUICIDIO DEL SAMURAI

"Questa gioia che ci illude avrà cura di noi"


Gli abiti con cui colmiamo
i nostri armadi,
sono i cani, sono i cari
che non colmano i nostri cuori.

Gli abiti concessi, gli abiti negati
in vetrine dopo l'orario di lavoro.
Gli abiti in solitudine fantasticati
lungo strade già vuote del ritorno.
Gli abiti avidamente accarezzati,
morbidi nella luce tiepida di boutique:
quelle ideali case rassicuranti
quanto il diritto di portare uno di quegli abiti
senza sapere dove, delle nostre rinunce testimone.

Ma, ancora, un'inquietudine riaffiora:
silenziosi compagni del nostro benessere,
eleganti custodi delle nostre stanze,
questi abiti non coprono, non sanno proteggerci.

Così tanti sul nostro corpo solo.
Troppo ostinata la loro fibra delocalizzata,
per non sopravvivere, ironicamente,
alla nostra pelle ormai scadente.
O soltanto fuori stagione
dei nostri brividi e soffocamenti.

E' allora che invochiamo la moda:
legge morale dentro ogni armadio da vuotare.

Lì ci porta: a un cassonetto
o, meglio ancora, un senzatetto
che ci ripaghi in senso di colpa,
ci serva da igiene di coscienza,
abiti il vuoto dei nostri castelli d'assenza.

Questo ci dà: abiti in un giorno estranei,
inutili e ridicoli come samurai di ventura
cui non permettiamo di invecchiare:
come cani, il loro sguardo non sapremmo tollerare.
Dobbiamo spingerli ad un suicidio
in noi temuto, eppure, già compiuto.

Perché a cosa è ridotta,
questa nostra esistenza,
all'infuori dell'ultima tendenza?
Dov'è insostenibile, così estraneo
ciò che deve compiersi piano
perché incontri il suo destino
quanto più lontano.

19.5.11

FANTASIA DI CAFFE'

Non è Parigi, qui. Non sei in uno dei caffè fantasticati
durante le ore immobili di francese.
E' una cittadina, immobile come quelle ore liceali
e la cittadina che allora le racchiudeva.
Dove i caffè erano e restano
nient'altro che bar, o fantasia.

Una cittadina, un mattino grigio di primavera, un treno soppresso.
Sguardi diffidenti o alteri - non sai capire
poggiati sul bancone, sulla chiave del bagno che sfili via.
Sguardi incuriositi o forse pietosi - finisci per vedere
poggiati su quel timido bicchiere di latte bianco, quel taccuino nero gualcito.

Fossi a Parigi, ti dici, non sembreresti matto
- a loro come a te
Né temeresti, ancora, di poterlo diventare
in un solo istante d'estraneità così - distratta, occasionale.

Ma sei qui, ti ricorda l'ennesimo portamonete firmato:
mano di un’età in cui tu contavi i soldi del gelato.

Qui, con questo spettro di pazzia.
Tu, il tuo placebo, una poesia.

18.5.11

SHELLEY NON BEVEVA

"He used to do surgery for girls in the Eighties
But gravity always wins." 


Byron gran bevitore: 
modo sudditante di dire un illustre ubriacone.
Shelley non beveva: 
la sua fibra nervosa non lo reggeva.
Solo questo ricordo.
Mi basta, d'insegnamento
più d'ogni suo sonetto
- che non ricordo se abbia scritto.

Mi basta, come detto
a pensare certi crolli nel mio letto:
quando dentro senti troppo, forse tutto.
Niente scampo a ciò che vuoi, che immagini di volere
lì nel passato, ormai lontano, cui adesso appartiene.

Ed allora credi d'averla
quella forza, indifferenza
alla paura, miseria di un'ostinata conservazione.
E per una notte sembri fatto per volare.
Ma la gravità o ciò che sia 
vince sempre, e così sia.

Ha vinto te
ancora qui, adesso. 
A ricordare con vergogna
quelle notti cui inesorabilmente segue il giorno.
A pensare perché Shelley non beveva.

14.5.11

PERCHE' L'AMORE MUORE

Perché un uomo si veste bene, 
sportivo ma elegante,
si rade in fretta ma con cura, anche la testa - coraggio di realismo
Esce di casa, in una delle prime mattine che possano dirsi di primavera,
per finire in una palestra squallida come questa.
Per finire, commovente nella sua discrezione, ciò che sta per finire  
con una lei fissa sul contachilometri della cyclette.

Perché un uomo che sa mantenere bassa la voce, 
che sa proteggere le proprie parole 
dalla morbosa intrusione di un casuale osservatore
Che sa accettare senza scatti di rabbia o d'amore, disperato
quell'ultima carezza il cui tepore gli è negato,
chiuso in una fascia da pugilato.

Perché un uomo che ai miei occhi non si ostina a ragazzo,
o peggio a bambino,
ha occhi così smarriti, mani così disperate
di trattenere una lei, culo sorpreso
dall'incombere dell'estate.

Perché oggi l'amore muore.
Un amore forse mai nato
in quella lei, proprio, perché?
Ed ogni altro è un amore sbagliato,
vano, oggi, 
come l'amor di sé.


13.5.11

QUANDO NASCE UNA POESIA

"E a noi non resta che scriverle in fretta"


C'è una voce, dentro
che mi parla.

Dice cose che riconosco, cose familiari:
ma per la prima volta ogni viso, luogo, evento
sembra avere, dentro, un senso.

C'è una voce, dentro
che mi parla.

La mia mano deve seguire quella voce,
non perdere sul foglio la traccia d'ogni parola.
Attenta e veloce, farsi come quella voce.

Poi è mestiere, talento, o dilettantismo.
Poi dev'essere intelligenza, sensibilità
nel capire, senza mutilare o soffocare, 
quanto la voce voleva dire.

Rispettare quella voce, servirla umilmente
è l'unica quiete in questo silenzio opprimente,
nel timore che domani taccia per sempre.

11.5.11

LE ORE GETTATE DELLA MIA GENERAZIONE

Allora avevano un come, un dove, la nostra colpa ed espiazione.
Erano come figli. I figli che alcuni di noi, domani, avrebbero avuto:
corpo estraneo ma reale
a cui dare nome, ancora sconosciuto.

C'era un rituale, come in ogni iniziazione.
Nel primo sguardo posato, fatalmente indugiato
su quei corpi, la loro superficie
cui ci avevano condannato.
Nella prima processione da imploranti, penitenti
che ognuno, poi, avrebbe proseguito solo:
verso i SerT, le aule universitarie, i Centri per il lavoro.

Ma allora sembravamo ancora uguali, uniti
in quell'odore stantio, miseramente inebriante
di tendine, penombra di un'edicola compiacente.
Tremavano le dita - di vergogna, fame
a scegliere, credendo di poterlo fare;
a pagare, quanto non potevano immaginare.  
Tremavano le gambe, furia meccanica
di marionette allineate, pronte ad essere svuotate.

Poi, nella solitudine che attende in fondo al coito, paziente,
quei corpi irreali, di carne patinata, fredda, imbalsamata
Via, gettati, con altra furia di svuotarsi occhi, mani, coscienza
d'un disagio colpevole, in cui ci avevano battezzato con il nome di Peccato.

Quei corpi che alcuni di noi, presto, avrebbero rinnegato
in un tepore smagliato così diverso da quanto immaginato.
Per altri, quelle Ore forse dimenticate con qualche sirena ancor più evanescente
- nella sua falsa glabrezza innocente, nel suo negarsi a connessioni lente.
E come quelle d'Olanda, allora,
mute alle finestre
dei nuovi mondi portatili, adesso, queste.

Nessun corpo né nome da dare.
Nessuna colpa né redenzione in cui sperare.
Niente da stringere né da scacciare,
queste mani
vuote come il nostro domani.

10.5.11

MAGGIO

Rondini tornano in volo
Su noi, ancora senza lavoro.

7.5.11

Santo subito

- Cosa vuole da me?
- Che non si dimentichi proprio tutto.

La seconda volta - Mimmo Calopresti


LETTERA A UN CONDANNATO

"Tutte le vite erano uguali, diceva la madre, tranne che per i bambini. Dei bambini, non si sapeva niente. 
E' vero, diceva il padre, dei bambini non si sa niente."


A te, che hai occhi per guardare
questa febbre che la tua carne fa tremare
A te, che chiedi da dove viene
questa colpa circoncisa al tuo pene

Tu, che non sai la condanna passeggera
di chi scorre distratto un Cronaca Vera
Tu, che non hai l'istinto autoassolutore
di chi schiude rapito un Le Ore 
Tu, esiliato dall'umana consorteria,
condannato alla sola via
di ritorno a ciò 
che nominare non so

Lì, al cuore d'un arcano, 
arcaico pulsare 
Che in te, è 
violenta nostalgia
Che in me, perché 
si fa pedofilia?


6.5.11

VOI, I RAGAZZI DELLO ZOO

"E andremo a prendere freddo da qualche parte..."


Amici, spero perdonerete questa copia sbiadita 
di quell'incedere a schiena dritta e nervi scoperti
che fu del nostro, mio ed anche vostro, padre Pier Paolo.
Cercate quella sconosciuta pietas per l'inadeguatezza mia ed anche vostra.
In fondo lui, che era lui, aveva ben altri interlocutori 
da cui farsi fraintendere, prima che odiare.

Erano i vostri, solo vostri in questo caso, padri e forse anche nonni.
Non i miei, spiacente amici. Mio nonno di rivoluzione ha visto da lontano 
solo il tramonto di quella di Russia, di ritorno con le scarpe in mano.
Quanto a mio padre, votava contro ad ogni occupazione
ansioso di quel pezzo di carta che ancora fugava l'oppio della dissociazione.
Ma i vostri padri ed i vostri nonni erano attori di valore,
così calati nel loro ruolo da arrivare, non in pochi, a convincersi che quel cielo si sarebbe lasciato assaltare.
E' dunque triste, vi capisco, che sia io a dovervi apostrofare
ma lo è altrettanto, credetemi, che i figli di quei padri e di quei nonni siate soltanto voi. 

E' passato qualche giorno, ormai, da quella Festa dei lavoratori
e mi chiedo dove siate, adesso, amici.
In qualche letto febbricitanti dopo tutta l'acqua presa sotto al palco?
O avete sviluppato anticorpi sufficienti ad immolare i vostri pochi anni
alle pose di circostanza senza apparenti danni?

Sapete, vi guardavo, infagottato sotto il mio ombrellino,
il fondoschiena umido di quella pioggia a vento, il disagio di non appartenenza
a quel povero rito collettivo.

Pensavo a quanto allora mi avevano incantato le vostre chiome grondanti: 
quando per diritto di nascita avrei potuto rivendicarvi fratellanza;
quando credevo fiera, e non mortalmente indolente, ogni vostra testa mossa a tempo, sapientemente.
Pensavo a quanto ora vadano oltre il semplice fastidio, in questa mia stagione da ospite non invitato;
quanto appaiano inutili e patetiche, buone solo alla pena disarmata di una mamma che vi aspetti alzata.

Mi sono sentito come un visitatore dello zoo, che ha pagato un biglietto esagerato
solo per scoprire con disgusto quanto già temuto: le scimmie sono migliori nei televisori. 
Solo stupito, forse, che paghino un biglietto anche loro, che sono lo spettacolo.
Eppure siete giovani, cultori della Giovinezza: sola grande famiglia, in questo paganesimo postmoderno, 
fratellanza di cocainomani lampadati e teste d'acido tatuate. 
A questo vi serve, dunque? Così poco vi salva, questa giovinezza che tanto feroci difendete, così disperati affermate?  
Solo per andare a prendere un po' di freddo da qualche parte?

Ora scusatemi, l'inutile sfogo è finito: inutile, ché non sono nemmeno capace a odiarvi.
Come diceva quel nostro padre, per sapere odiare bisogna prima imparare ad amare.
Ed in questo, il nostro fallire non è diverso.
Alla vostra età, quando è quasi inevitabile il destino sacrificale 
di chi ha in sorte una qualche, cosiddetta, sensibilità. 
Alla mia, quando a fronte d'ogni tentazione di vendersi 
non resta nessuno che voglia comprare. 


(Ai concerti in cui diffondevamo l'"amore") 

5.5.11

NATURA E CULTURA

Anch'io ho sottolineato i libri con il righello.
Anch'io ho preso distanza dagli invisi all'autorità. 
Anch'io ho provato a diventare un impiegato statale.

Ma adesso sarebbe ingiusto semplificare, falso liquidare 
tutto con un banale 'Questo mi hanno insegnato'. 
E' vero, l'hanno fatto o almeno ci hanno provato. 
Ma forse quelle lezioni non sono servite: 
voglio dire, le potevano anche risparmiare
ad una natura troppo poco selvatica 
per tendere d'istinto a diffidare;
per non cercare, fatalmente 
qualcuno da cui farsi adottare.

4.5.11

GLASSA

Una parola che non incontravo da tanto. Questa sera, appena letta in un famoso racconto, mi ha riportato ad una mattina lontana. Alla scuola elementare, durante la lettura di uno di quei raccontini che anche persone della nostra età avrebbero apprezzato solo se costrette, o molto limitate: per la maggior parte di noi credo valesse il primo caso.
Si parlava di una torta ed una festa rovinate da un temporale estivo ed infine sostituite da un gelato al bar. 
Quella mattina c'era un uomo a fare dei lavoretti nella classe: tutti noi furtivamente distratti dalla curiosità e la soggezione per questo signore ancora giovane dalla pelle sciupata, lisci capelli chiari, ed occhi trasparenti come il vetro. 
Finito di leggere, la maestra rivolta a lui: 'Angelo, - così mi pare si chiamasse, proprio come un nostro compagno dalla pelle precocemente sciupata - ti piace la glassa?' E lui, senza traccia della soggezione che avevo  visto negli occhi di molte mamme, ingioiellate e non, come la mia: 'Naa, troppo dolce.' La maestra sembrò assentire di complicità.
Quando più tardi quella mattina, ed altre mattine ancora, lo sentii nel corridoio che fischiettava come io non ho mai imparato, immaginai con imbarazzo e malizia la maestra segretamente innamorata di lui, che si tradiva, forse volontariamente, facendo notare a tutti noi com'era dolce quel fischiare. Pensai poi che quell'uomo così libero doveva essere anche felice: non sembrava temere né appartenere a quel mondo che puntuale aspettava alla mattina ognuno di noi.
Questa sera, lo stesso mondo puntuale che per oggi sembra essersi stancato, ripenso a lui, ai miei pensieri di allora, 
e forse anch'io assento di complicità. 

2.5.11

LEI NON L'HA MAI FATTO

Chiesi della famiglia. Senza pensarci, prima: come autorizzato da quel silenzio prolungato toccatoci senza che ci avessimo pensato, prima. Ma forse, immaginai dopo aver chiesto, non era come me. Era di quelle persone che preferiscono restare ferme, magari simulando indifferenza, piuttosto che sbracciarsi a scongiurare un insetto che comunque ti può toccare. 
Dunque chiesi, e liquidò: 'Niente fratelli. Mio padre tradiva mia madre.' Liquidò con la stessa indolenza, che allora avrei detto stile, la mia faccia forse imbarazzante oltre che imbarazzata: 'Non c'è molto da dispiacersi, davvero. Lo so da poco ma ormai lo so. Lei non l'hai mai fatto per lo stesso motivo per cui l'ha fatto lui.'