27.2.12

RUSH 

Sono dunque questi i mattini
che ci rimane da vedere?
Un furioso strappare al prossimo
la miseria di un metro
che riporti ognuno di noi
alla sua invocata, precaria prigione.


Ad un liricamente banale
tragicamente reale
quotidiano uguale e uguale

25.2.12

L'anno moriva

"Tutti gli uomini della tua vita... uomini in esclusiva, uomini solo in prova, uomini raccattati nel pattume, uomini coperti di piume."

L’anno moriva, assai agramente. Mosso da un esile afflato di candida lena, concepivo questa plaquette timidamente eretica,  
nella rea speranza in un editore ideale e, puntualmente, sì reale da servirmi del rifiuto più avvilente: quello muto, indifferente.
Non senza privilegiarmi di una paterna lezione delle più preziose, poiché impartite inconsapevolmente: ne è debitrice 
la rabbia tra i secchi versi a venire sibilante.
Li lascio a lei, per la stima di ciò che fa: quanto mi basta conoscere di ciò che è.
Something will tear us apart, again.


POVERI OMERI

Dolersi oggi di una negata pubblicazione
è già lagnarsi, domani, di una sfumata fama.
E' come non pensare più
o, peggio ancora, cambiare idea
solo perché qualcuno, a questo mondo, non approva
e tutto il resto, ignora.
Così viziato, e debole: così figlio del proprio tempo
non desiderato che nell’attesa troppo breve
in cui vestire da speranza ogni paterno rimpianto riposto.
Così inabile a restare straniero
tra i propri coevi ed ognuno dei conoscenti,
per costruirsi le spalle del passato
e disegnarsi gli occhi dell’avvenire.
Non doversi ripetere, ma semplicemente
naturalmente sentire che il senso solo sta nel fare.
Nello scrivere, rari privilegiati di un alfabeto
dove poter rinvenire le parole per raccontare
un piccolo mondo caldo quanto marcescente
in cui, scomparsi tutti gli eroi, possiamo parlare anche noi.


A Giorgio Canali


24.2.12

BUCK E I SUOI NIPOTI

"La verità è un argomento da ubriachi"


Erano in due,
cinti da stagnanti volute di catrame
che la mia educanda astemia
punse agli occhi, prese alla gola.

Erano lì insieme
e, insieme, soli
tra gli affannati cocktails schioccanti
da quell'ultimo avamposto sociale, il bancone,
e introdotti sciolti astanti
esibirsi in profonda distrazione.

L'uno, sottovuoto asciutto,
sarebbe stato il Bello.
Dentro al cono d'ombra crogiolato
come un Loreto alla catena appollaiato:
cocorito da tabaccheria
assiso su escrementizia fetenzia.
Stuzzicando la sua semiacustica
con tutta la distrazione compiaciuta
che ben altri dedicarono a una sconosciuta.

L'altro, onanista militante,
avrebbe dovuto far da Cervello
o da bolso Super-Io di quel mutilato trio.
Giocava così allo scrittore
anche lì, in pubblico, nessun pudore:
solo commozione di un'ormai epica
prima e sola femminea natica
nel tormentare i caratteri metallici
pestati senza forza d'alcuna rabbia
da quegli imperlati indici,
con la puerile purezza intellettuale
di scimpanzè in salopette
nelle foto d'infanzia al mare.

Un mantra di regionalismo mal curato
sputacchiante birra con barbarie da iniziato
per cui non trovai pietas meno parassitaria
del loro saggio d'avanguardia reazionaria.
Ripetendomi che questo è il guaio con Chinaski,
i suoi tardi biografi oranti,
le sue perdute minorate amanti.
Il solito vecchio guaio, con Buck e i suoi nipoti:
come tutti gli ammantati d'ateismo fuori
coprono dentro un'incoscienza da predicatori.

Un'indigenza di amici a pagamento
di chi, appeso a un filtro, ancora sa attendere il buio
per tornare al proprio bicchiere,
baciato come una Mery per sempre
nella consuetudine morale del ragioniere.

Da generazioni tramandati
con quegli inganni dai diritti riservati:
per cui vivere è già vedere
e per capire, basta bere.

21.2.12

LA SERA DI CHI RESTA

Non mi sono mai sentito così solo
come nella città in cui sono nato.
Forse perché è lì che ho dovuto vivere
i primi Natali scartati i doni,
le prime Pasque smessi gli abiti buoni.
Ascoltare ed imparare a conoscere
quel vuoto di ogni silenzio festivo.
Lì che ho iniziato ad illudermi:
insegnandomi, nella colpa più incosciente,
la speranza.


A Valerio Di Nocco
che, voglio credere,
scriva per non morire
o, almeno, per imparare

19.2.12

ACCADEMIA

E’ una dignità lisa,
ostinatamente decorosa,
a trarmi in vulnerabile parte
alla brulicante fretta
da solerte, devota donnetta
che muove ogni giovanissima vecchia
futura letterata in lista d’attesa.
Menti di tornare a vuotarsi ardenti
per poi riempirsi sempre più rapidamente:
una solennità da negrieri
percorre quelle lingue sferzanti
deboli parole al riparo servile
di potenti nozioni.
Eruttando fino all’ultima
nell’infantile, soave discrezione
di stomaci sfiniti da serate universitarie
come da cocktails spermatici
dinanzi ad agili videocamere.
Invocando poesia in quella umana latrina,
la fronte raffreddata da un vetro senza uscita,
io fingo di contare le pozze mai concentriche
che queste gocce di febbraio continuano a lasciare.
Come potessi attenderlo dall’orizzonte
di quel polo multifunzionale,
nella mia rêverie d’estrazione parastatale
rivolta al meglio da venire
e nel solo lusso del rimpianto lasciar passare:
fingendo di saper dimenticare
che la demagogica gratificazione
di un libretto intero
non vale la noia e l’ansia
di un pomeriggio solo.
Ha l’aria di non poterlo ignorare,
quella ragazza della mia stessa disparte:
il volto di plastica, bruciato letteralmente
e non in qualche metafora impotente.

18.2.12

AMICI IN COMUNE

Ho avuto un amico.
Così al tempo
necessitavo considerarlo.

Devoto marxista parlamentare,
già limava un’eloquenza elettorale
nel sogno da eminenza grigia
sin dentro l'alba livida 
di un’esistenza bigia:
mortificante consolazione
d’ogni anonimo consulente comunale.

Ma laddove il cuore
ne ha rinnegato la memoria,
giunge a sostegno la mia mente
nel ritrarlo comunista coerente:
l’intero suo giorno di gioventù
consumato a dir proprio l’altrui
o a lottare per farlo tale.
 
  
Ad ogni abbraccio
che ci appare fraterno,
come qualsiasi seno materno
ed un povero coito quasi eterno
Quando il sole è ormai tramontato
nell’ultimo bicchiere appena vuotato

16.2.12

L'anno moriva
 

L’anno moriva, assai agramente. Mosso da un esile afflato di candida lena, concepivo questa plaquette timidamente eretica, nella rea speranza in un editore ideale e, puntualmente, sì reale da servirmi del rifiuto più avvilente: quello muto, indifferente.
Non senza privilegiarmi di una paterna lezione delle più preziose, poiché impartite inconsapevolmente: ne è debitrice la rabbia tra i secchi versi a venire sibilante.




LETTERA A UN EDITORE IDEALE

Rispettato Editore Ideale,
qual suadente cattedratico annunziare
'Ci vuol coraggio per traghettare
la Poesia nel terzo millennio!'

Forse per ciò non le rimane
che la viltà di un'indifferenza mortale
riservata a quella poesia
che cammini da sola.

In tremante parte per se stessa
tra tanta decrepita, ancor giovanile
troppo umana consorteria.

14.2.12

DELLE CICATRICI

“Ride delle cicatrici, chi non ha mai provato una ferita.”

Alla nostra barba
che ricorderebbero suadente
nella sua discreta riflessiva incuranza.
Alla nostra pelle
che rimpiangerebbero toccante
nell’esausta perentorietà
di reduci ormai apolidi
sopravvissuti ad un’adolescenza
mutilata della sua unica dignità.

A te, gemello nel controllo,
che sfiorando riconoscerebbero
se dita sole in mani attente
di rara femminilità dolente
provassero ad intuirvi
quel retrogusto ancora sconosciuto
di un percorso mai compiuto.

Ai non so come tanti
che disprezzarci crederanno
con l’unica forza che scopriranno
non avere né poter acquistare,
poiché muove chi viene dalla fame.
Chi uno specchio quotidiano
continua a fronteggiare,
e non per ordinargli rassicurazione
della propria carnale elezione.

Ai molti qui davanti
persuasi di servirsi del piacere
come strumento, uno fra i tanti,
del loro ereditario potere.
Con la bestiale naturalezza
di atleti prodigio nei bordelli
a godere soltanto della propria bellezza.

Malinconiche maestà lese
sotto il grigio diluvio estetico
di sinuose falde tese.
Estrema unzione
dei loro scranni d’aule, biblioteche,
di quella formidabile età
in cui spalle perfettamente gracili
gli imprestammo per comiche crudeltà.

Fonte battesimale
nell’argine friabile delle parole
che come noi allora
tentano d’opporre, ora,
al corso irrazionale
che il sangue nero continua a tracciare.
Portando con sé il segreto
di quello che io e te siamo:
fino in fondo gli stessi
che una volta, mai morta, eravamo.


All’unica matrice d’ogni cicatrice
ed a C. che può capirmi, forse,
più di quanto io gli chieda


12.2.12

DEVE LA NEVE

“Quando i vostri nomi, le vostre istituzioni non saranno che il ricordo di un passato, maledetto…”


Il suo gelo
che su noi ha spirato
per un immoto istante vorrei
che dentro ci avesse paralizzato:
all’origine dannata dell’erranza operosa
d’ogni nostro oblio trafelato.
E prima che tornassimo a violarne il silenzio,
condannarne il candore in cumuli di rifiuti
come i nostri morti nella civiltà dei riti,
vorrei ci avesse costretto a fermarci,
portandoci a vederci, riconoscerci e consacrarci
come barbaramente moderni, 

nella comunale accezione pestilenziale
di miserabili odierni.
Caina stirpe d’orfani
mercanti del proprio passato.

9.2.12

MILANO LUNGA MANO

Digli pure che il potere io l'ho scagliato dalle mani”

Provassi a plagiarne le parole
non dovrei temerne querela
ormai meno di ritorsione:
perché egli è ancora,
di rendita vitalizia e illustre compagnia,
nell'indice già corroso
del nostro tomo più nero e polveroso.

Volessi interpretarne dichiarazione
non troverei idea, solo convinzione
dentro la bestia di quell'umana sensazione:
mente per ingannare, su Milano, chi non ne sia
mai stato di sonno accecato
né assordito di foschia,
chi per il gioco non fu mai giovane
né per il lavoro abbastanza anziano.

Così la maschera assunta
sulla faccia messa tra virgolette
d'iconografici, metastorici mustacchi:
compensazione fallica, promessa virilità retorica
mantenuta in verbosa impotenza
da queruli televenditori
come garruli acconciatori.

Così quel Moretti ironicamente minore,
ancora clandestino nella memoria di ciascuno
a ricordare come pietra miliare
che c'è un luogo
in cui non serve esser pronti a morire
nel prepararsi ad ammazzare.
Che c'è uno stato
in cui l'odio può scagliarsi dalle mani
senza passare attraverso il cuore.

E l'unica morte da dover guardare
è in quell'espiante reificazione
d'impiegato, portaborse o facente funzione
di ogni pro e controrivoluzione.


Ai lunghi e fondi anni a piombo

8.2.12

BUONA FINE

Siamo io e te, su queste sedie, ad aspettare. Poi comincia la polvere...”

E noi?
Dov'eravamo, noi,
mentre il paese vibrava
di plastico e piombo
in fondo a una strada,
ai margini di una piazza o davanti a una stazione
nella ringhiante disperazione di un ostinato veglione?

Chiusi nelle case nostre o del padrone
restavamo ad aspettare con la pazienza infaticabile
che appartiene al timore, alla rassegnazione
di chi al mattino si alzerà, senza svegliarsi,
per tornare al proprio dovere,
la propria professione o il proprio mestiere:
l'onesto e silenzioso lavoro
di lasciarli sempre in minoranza, loro.
Di chi a sera chioserà,
opponendo all'ansia femminile del sentito dire
quell'aria patriarcale del tutto già visto,
del nulla di nuovo che possa più colpire.

Noi che, modesti come solo gli onesti,
alla nostra prole lasciammo ben altro da fare
che in autunnale adolescenza farsi saltare
o cadere per un nostro colpo vagante al cuore.

Noi avidi di tornare a dormire
il sonno giusto di chi sa
che svegliarsi presto dovrà.

7.2.12

NATALE, FINE MILLENNIO

Qui, su livide banchine
lustre vetrine anonime come veline
traboccanti isterici bagagli a ruote,
goffe pelli d'oche, tasche mai così vuote.

E' la resa vanagloriosa
di tutti noi vinti senza dignitosa 
resistenza, sola reietta erranza
tra diafani rimpianti di tremula ineleganza.