31.5.12

SE TU NON MANGI TU NON PUOI MORIRE


Qui, in disparte come allora,
osservo - altro non so fare -
vite di corpi
attraversate da età
che sento di non aver mai avuto.
Céline, lui mi comprenderebbe:
nelle parole che ammonivano un Padre
a non vagheggiare di perduti
innocenti giorni mai vissuti.

Qui, verso corpi avvelenati
quanto cibi adulterati,
si avvicendano le due facce
della mia nauseata inappetenza,
bulimica incontinenza.
Nello stesso interrogativo
senza futuro né passato:
di me cosa sarebbe stato,
d'un simile edonismo malato,
dopo essermi svuotato?

30.5.12

MAIA... DESNUDA


Irredimibili starlette
d'infaticabile affanno costrette
tra la capitalizzazione
delle vostre grazie
e una scaltra purificazione
- in forgiate verginità
che d'ani di porno imbiancati
tradiscono la credibilità.

Al vostro isterico ripararvi
tra lise trasparenze concettuali
di “nudi artistici” mai volgari
ricordo che l'arte vera,
ben altro dalla passeggera
ereditaria procacità
d'ogni vostra inutilità,
un giusto prezzo mai avrà.

Così può e deve darsi ogni giorno,
per pochi soldi e troppe ore,
nella minaccia della notte
come nel disprezzo del sole,
dai margini di strade
a scorrimento veloce
sin dentro macchine
che di un tramonto
non conobbero mai la voce.



Ad ogni Francesca Inaudi,
e la sua disciplinata ubiquità
da uno Strehler nel suo Piccolo
ad un camionista nel suo incunabolo

29.5.12

LE BRUTTE BANDIERE

"Si muore un po' per poter vivere"


Avrei voluto cercar versi 
per non dover trovare persi
tutte quelle bandiere e cittadini 
che ogni loro casa hanno vuotato
e tutte le nostre strade poi colmato
come nell'anno che precede il passato:
ma, proprio come allora, 
non erano che tifosi. 
Tifosi, ancora, 
dalla prima all'ultim'ora. 

E l'amarezza, 
così come certa bellezza, 
alle parole sa sfuggire 
rendendosi “irriferibile in rime”. 
Ma non lo è un ricordo, che so 
dove domani custodirò:
nel timido sussulto al cuore 
vedendo stringermi la mano 
da goffo, sincero fare giovanile 
di quel Vicari di Diaz
- nel suo intero essere evocante
un fraterno stereotipo militante.

In quel deserto ingresso
di un cinema altrettanto dimesso
sento ancora echeggiare
il suo candido domandare 
'C'è qualcuno in sala?':
sentendosi rispondere, vagamente, 
il serale sarebbe stato più promettente. 

Mentre, da un'incolmabile rimpetto,
tutta quella morta giovinezza...
paga soltanto di denudare 
la propria ardente, sterile bellezza
- ciondolando con disinvoltura,
inarcato d'ogni sesso il petto,
come impone un'anima già matura. 
Al riparo della paterna, imperitura
fascistissima architettura 
di una Biblioteca Provinciale
quanto il suo lascito culturale.

27.5.12

Meglio

"It is better to understand a little than to misunderstand a lot."

Meglio l'amore che rende felice e fedele un cane dell'amore che rende nevrotico ed ostile un figlio.

26.5.12

La nebbia di tabacco narcotico del Capitalismo

- A Milano, quando c'è la nebbia, non si vede.
- Ah... e chi la vede?”


Alla cortese attenzione di chi,
pur smarrita o sconosciuta una residua coscienza di classe, serbi ancora consapevolezza del proprio potere d'acquisto. 
Che benedizione, ne converrà, quei beni di consumo dal prezzo di mercato sprovvisto di scala mobile capace di attrarre, catechizzare, ogni potenziale (anche lontanamente: ci si può sempre indebitare) consumatore accecato dalla devozione!
Ed il pensiero vola alle sigarette, che dalle buste di tabacco feticcio del post-proletariato più imborghesito sino agli impalpabili pacchetti di bionde snelle come dita d'ereditiere, erano e restano un bene, a ben vedere, di sfacciato quanto ineluttabile lusso.
Non so né mi preme particolarmente indagare quali ragioni macroeconomiche determinino quanto sopra, ma mi dico ben lieto d'essermi trovato dinanzi a cotanto status quo ante: credo, infatti, che se anche un giorno decidessi o non potessi esimermi dal riprendere a fumare, rammenterei comunque con quale evidenza nel tabagismo si manifesti quella rincorsa dei poveri alle terga dei ricchi: affannosa quanto bestialmente paga dell'idea di consumare un bene di qualità pari a quella riservata ad uno di quei privilegiati.
Siffatto “machiavello” potrebbe estendersi, a rigor di logica, ad ogni altro bene: sbiadite immagini di un savonaroliano Marcuse tra i nascenti malls californiani mi ammoniscono, dunque, a non confondere questa mia presa di coscienza con un'intuizione originale. Tuttavia una Coca Cola o, chessò, una maglietta Nike non potrebbero vantare la medesima valenza simbolica di un pacchetto di sigarette: l'una per il costo (capitalizzando la questua giornaliera può ambirvi anche un homeless), l'altra per la peculiare modalità di fruizione (qualsiasi bramante acquirente, o mero “utlilizzatore finale”, potrebbe risolversi ad economizzare per qualche tempo o, in mancanza, taccheggiare lungi dalle telecamere di un circuito chiuso). Non faticherà a compenetrarsi nella pratica del furtarello anche il più ligio cittadino occidentale medio: c'è lì qualcuno che non ne abbia esperito, nello svezzamento di ribellismo adolescenziale, il brivido proibito? Sono semmai gli straricchi e famosi, poi, a trascinare quel peccatuccio veniale oltre la soglia della psichica linea di confine.
Quanto invece al tabacco, come noto esso implica una modalità di consumo continua, o comunque costante, unita ad un costo mediamente alto (checché ne dicano i “tardi” rivoluzionari delle cartine) e ad una ben maggiore difficoltà di illecita sottrazione.
Per giungere, infine, al fattore uncinamento: quella predisposizione di una sostanza – e, per analogia, di una qualsiasi merce – a creare dipendenza in un certo tempo e con una certa stringenza, sono altresì scientificamente ignorante. Tuttavia tenderei a non escludere che il desiderio di una bibita o di un capo d'abbigliamento possa essere sapientemente reso non meno assillante del bisogno, fisico e psicologico, individuale come sociale, di una sigaretta tra le dita (schiavitù che gode di illustri nobilitazioni intellettualistiche: mi sovviene, tra la nutrita schiera, un'ode di Oriana Fallaci alla sua marca preferita, tra strali verso il tumore che la punì, previamente oltraggiata dagli antidemocratici divieti di fumo nei luoghi pubblici della "sua" America).
Grato dunque alle multinazionali del tabacco per aver mantenuto la loro nebbia narcotica così inconfondibilmente densa, rivolgo, ahimé, le mie pene all'alcool: solo in parte lenite da una certa esperienza personale di non spiccata inclinazione al tabagismo come all'alcoolismo. Ma non meno inquietante resta la consapevolezza che, per un esponente del ceto medio-basso, nel più vicino discount con pochi euro al giorno ci sarebbe di che stonarsi per diversi mesi, forse anni: di certo sino ad un punto di non ritorno fisico prima che finanziario. Se poi un mio pari per estrazione sociale volesse altresì soddisfare la propria “sete” di socialità, dunque persuadersi di bere con minor disperazione perché non solo come un cane, certo gli si assottiglierebbero le possibilità – vedasi lo spread tra una FinkBrau del Lidl ed una Peroni di un qualsiasi bar – ma credo che anche in tal caso un soggiorno in ospedale o nuove amicizie tra gli Alcolisti Anonimi non sarebbero proibitivi per le sue tasche. Tutto ciò, in passato, ero portato a considerare, con un cecità sì vergognosa da non poterla più scordare, quale residuo, se non di democraticità, quantomeno di timida umanità nel freddo mondo monetizzato di questa economia di mercato. Come dire che se anche un morto di fame poteva ubriacarsi senza previamente dover delinquere, almeno quell'ambito del consumismo non era ancora così impietosamente elitario e ghettizzante. Consumismo è la parola magica per comprendere tanta idiozia (nella quale, neanche a dirlo, ero in buona compagnia): partivo infatti dall'ineluttabile presupposto di essere un consumatore, attributo talmente consustanziale alla mia fibra umana da non essere neanche più ravvisabile come elemento aggiunto e, almeno teoricamente, estraneo.
Come ragionare di aborto senza ricordare che il precedente logico è il coito con le sue declinazioni politicamente codificate - giusto per riesumare uno dei passaggi meno compresi e dunque più vilipesi e poi rimossi tra gli scritti pasoliniani. O, per chiudere con un illuministico volo su ali di cera, come interrogarsi sulla opportunità di regolamentare la prostituzione – tema caro, a latere delle canne, a certa swinging sinistra post-amsterdamiana, ove non fo mistero di ambita militanza – disinvoltamente ignoranti di quali sapienti, articolate forme di alienazione manterranno sempre moderno quel mestiere cui si ammicca come il più antico.
Ma questa è una storia che meriterebbe spendita di ben altre parole...


P.S.

Il trattatello amatoriale sule dipendenze di massa che spero avrete appena letto, ha volutamente tralasciato la dolentissima nota televisione. Nelle più audaci chimere di chi scrive, infatti, il passaggio al digitale terrestre in Italia avrebbe potuto, data anche la peculiare contingenza economica, lasciar spenti per sempre molti televisori: il che avrebbe rappresentato una forma di ribellione - inconsapevole come nella Fratelli di Ungaretti - anche alla vigliacca legittimazione del monopolio di fatto che dai lontani '80 affligge il settore. Tuttavia chi comanda non è al potere casualmente, dunque gli apparecchietti di decodificazione sono spuntati in ogni dove a prezzi, fuor di virgolette, popolari. Guidando così una fallita rivoluzione che, se può consolare, quantomeno non avrà i difetti delle rivoluzioni riuscite - per dirla con qualche protagonista di anni svaniti a piombo.

25.5.12

Anche i commercialisti hanno un'anima

"Lei è un galoppino mandato qui dal droghiere a incassare i sospesi."


Anche i commercialisti hanno un'anima? Di certo hanno un alibi.
Per dirla con il prof. Carlo di Torrealta, 'Io non sono un matematico, per carità!' Però 'sta storia del nuovo et sobrio esecutivo tecnocratico con il suo ritornello dei Mercati Onnipotenti opposto ad ogni timido capolino osato dall'economia reale – quella, per intenderci, dei sempre meno dissimulabili neomorti di fame – che osi turbare il loro iniziatico confabulio professorale... ecco, mi ricorda un po' il fantozziano ortopedico, al secolo Camillo Milli, supplente del ginecologo titolare (con un'altissima, rammentiamo, percentuale di "eventi infausti")...
- ...Intanto si prenoti un letto.
- E quanto ci vuole?
- Se tutto va bene... due anni.
- Ma per una gravidanza ci vogliono solo nove mesi!
- Ah sì?
- Ma scusi, lei non lo sa?!
- Ma gliel'ho detto che sono ortopedico!

Quanto poi a quel Mario lì, il Presidente Sobrio, ma lasciatemelo stare! Non glielo date, l'alcool! Tutti lì a strattonarlo per il Loden, questo compassato ragioniere - pardon, commercialista - bocconiano... Del resto, tra i tanti coglibili 'fior da fiore' che dovevano far tornare matematica (ed economia) non un'opinione, chi meglio del titolare d'una chioma dall'aplomb così lungi da quello del predecessore, per restituirci la "credibilità" mortificata dai complici risolini franco-tedeschi? Chi, di grazia, più opportunamente ex machina di questo friedmaniano di ferro dal guanto in velluto - d'artigianato rigorosamente locale? Egli che, piazzato davanti ad un neobarbuto (onde capitalizzare tempo mattutino) Marchionne catechizzante vergini greggi di sfruttandi serbi, si spertica barocco in ridefinizioni prêt-à-porter di un ineducato "delocalizzazioni" tosto reso "internazionalizzazioni attive" - non perniciose, tranquillizza, dal canto operaio (a non sottilizzare i 300 euro mensili serbi e gli ormai zero italiani). E' lì che ho creduto di intravedere, al contempo, il drugo Alex sotto cura Ludovico e l'ancor stachanovista Lulù Massa: 'Adesso va a finire che il cottimo l'ho inventato io!' 
Ed infine, se - apprendo da fonti sicure - dal laboratorio culturale del nètuorc sociale professa per il professore un amore disinibito finanche l'unica mia conoscenza scolastica ormai "robustamente" inserita nell''Europa che lavora', lungi dall''Europa che chiacchera' tra lagnosi borbonismi... sempre più mi vado persuadendo che non venda sogni, quest'uomo, ma solide realtà. Ordunque, qui si (ri)fa l'Europa o si muore... di fame. E allora lasciatemelo lavorare! Non rifacciamo come con quell'altro, continuamente interrotto per qualche puttana! Pardon, nipote...

24.5.12

IGIENE EROTICA

Ridotta imbelle, sterile, igienica... una unità di produzione.”


Dalla nascita consegnati
a sterili vasche stagne
forgiate dai contributi sociali
di famiglia, scuola, media
- i soliti solerti gendarmi statali.
Comparti, senza tema di dispersione,
da colmarsi
d'ogni futura lacrima, seme, umore:
unica informe materia inquietante
ove qualcuno, ancora, sembra intuire
un qualche residuo d'umano pulsare.


23.5.12

IL MIO SUDAFRICA

"Che annega nel mare urbano di donne indifferenti e un po' qualunque"


Avrei voluto esser fotografo,
un mattino, in cui tra gioventù perdute
sciamanti verso la scuola
un'adolescente non sgraziata
quanto la sua desiderabilità
così vanamente invocata,
nella distrazione o fastidio
dedicati ad un muro o un randagio
lasciava sfiorare dalla sua borsa firmata
- passaggio di testimone
d'ogni suo materno amore -
la nuda pelle di un giovane africano:
incorrotta dignitosa bellezza
di chi lontano dagli specchi,
dalla madre e i suoi occhi,
l'ha vista fiorire
come unica ereditaria ricchezza
da provare a custodire.
Un giovane uomo
dagli occhi di bambino
lasciati lontano, come tutti gli esuli
della sua negra terra,
per l'immota attesa di un bus
verso il cantiere, la piantagione, la riviera,
o quale altra quotidiana vita di miseria.
Avrei voluto, un mattino,
che dalla sua inesistenza
per quella futura donna qualunque
nell'intero mio Paese
mai ancora giunto al dunque,
tutti ci disperdesse il fiorire
di un'inimmaginata,
non più tradita Resistenza:
nella violenza della mitezza
che di ogni Sudafrica del mondo
è incorrotto mattino di bellezza. 


22.5.12

BRACCIA BUCATE

"Il mio modo vigliacco di restare sperando che ci sia quello che non c'è"


Ho speso i miei vent'anni
a bucarmi le braccia
senza mai capire
quel senso di dovere
- se non nell'illusione
che esistesse ancora un dolore
rimesso al solo mio volere.

Fuor di me, come sangue
li ho lasciati scivolare:
senza mai trovarmi
dinanzi il Ginsberg dove specchiare
l'epilettico individualismo
della mia pelle incenerita
contro la nebbia di tabacco narcotico
del Capitalismo.

Ho attraversato la giovinezza,
tutta quella concessami nella vita,
coprendo di me ogni cosa
rimasta nuda nell'altrui scherno,
giudizio, censura più impietosa.

Per investire i miei trent'anni
nel ritenere ciò che ho inteso:
la sola intima, insopprimibile protesta
è non lasciar svilire
ogni propria libertà ideale
sino alla compita obbedienza
di un concetto sempre più vago
come la sua impotenza.

Sino ad una tregua di gustose
finché fugaci e nervose
boccate catramose
quanto i luoghi d'aria
nelle nostre ore mai inoperose.

Da lasciar quasi anelare
sorti di diversa elemosina
sulle medesime strade:
ad aprirsi altri buchi
oltre i quali incontrare
una morte non più fatale
di questa prigioniera
sopravvivenza sociale.


21.5.12

QUEGLI ANTIPATICI ANTIPARTITICI


Sosteneva Carlo Marx che l'inaccettabile violenza insita nel liberismo di scuola classica risiedesse, prima ancora che nei suoi disegni, nella spietata arbitrarietà con cui si poneva quale unico sistema economico possibile: ne rappresentano inconfutabili prove, le macerie mondiali tra le quali ci ritroviamo a vagare. E' questa forma mentis che scimmiottano, miseramente inconsapevoli, i partiti tradizionalmente insediati in tutte le stanze e palazzi istituzionali, per i quali l'unica politica legittima è quella esprimibile attraverso i partiti - possibilmente i loro - nel “gioco democratico” strutturato alla maniera in cui essi hanno sempre giocato e si ostinano avidamente a perpetrare. Quanto posto al di fuori di ciò mai si vedrà riconosciuta dignità di soggetto politico, ma solo la vetusta vaghezza con cui, tra dissimulati paternalismi ed aperti isterismi, “quando non si comprendono le cose si costruiscono scaffali”, etichettandoli come qualunquismo, populismo, dilettantismo: disinvoltamente ex cathedra, come si conviene a simili professionisti dell'antismo.
Persuaso che di determinati bigini scopiazzati di teoria economico-politica possa fare bellamente a meno chi sinceramente si accinga a costruire anziché restaurare, come i soliti politici, o abbattere, come i soliti tecnocrati, auguro, di testa prima che di cuore, ai vincitori davvero nuovi di queste ultime elezioni - nuovi poiché non riassumibili, ed esauribili, in quattro nuove facce e nomi - di non cedere alla tentazione di restar vecchi o divenirlo anzitempo.
Circa la futura strada a percorrersi da questi “grillini” brillantemente eufemizzati dall'osservatorio sornione di ogni politologo di professione, potrebbe avere valore d'indizio intuire quanta nostalgia sopravviva in loro per il perduto benessere e quanta passione nasca invece per la “fertile utopia” di una società meno iniquamente schifosa se non addirittura migliore: ciò potrebbe dirla lunga sulla vocazione – che chi scrive si augura sincera – ad un fare politico fieramente antipolitico, se la politica continuasse ad intendersi alla maniera di quei grigi, argentati galantuomini lì.
Mutatis mutandis, nel mondo dei grandi, quanto serpeggia nelle manifestazioni studentesche: tutti urlanti all'indirizzo del voto oggi e del posto domani, o qualcuno ancora rivolto all'acculturazione come pietra d'angolo della propria umana formazione?


20.5.12

IL TRAMONTO MERIDIONALE

All'orizzonte di quel Meridione
sola superstite questione
è se delinquere in associazione 
richieda anch'esso raccomandazione.

12.5.12

SOGNO NUMERO DUE

C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.”


Questa notte io e la mia famiglia siamo fuggiti dalla nostra casa. Mia madre correva a chiamarmi, e con il suo irrinunciabile tono di rimprovero di chi richiama, esortando a fare qualcosa che, del tutto arbitrariamente, ritiene già ovvio, mi urla sottovoce che 'C'è la polizia dentro la polizia!'
Non capisco dove siano e se dobbiamo consegnarci spontaneamente, oppure tentare di fuggire sia ancora possibile (non capisco perché fuggiamo, soprattutto, ma fuggire dalla polizia mi sembra, quello sì, istintivamente logico): c'è una grossa auto bianca di marca americana - una Chrysler, mi sembra - davanti al cancello del cortile, e per un attimo penso sia lì per aiutarci a fuggire. Poi però diventa una vecchia ammiraglia Mercedes, guidata da un anziano funzionario che ha accanto la figlia adolescente di un condomino della scala opposta alla nostra, catechista ai tempi della mia cresima ed ora padre di famiglia religiosamente prolifica. Ci sediamo dietro, io e mia madre - prima, nella trafelata discesa delle scale, le avevo chiesto cosa avrei dovuto rispondere ad eventuali domande e lei, sempre con quell'autoritaria impazienza, mi aveva ammonito a non dire la verità (...quale?) e, subito dopo, a ripetere semplicemente quanto avevo detto a lei (...cosa?): insomma, rispondere a qualsiasi domanda senza timore. Frattanto, da quel sedile posteriore la disinvolta implausibilità del sogno ci colloca alla guida di un'altra auto con cui l'anziano funzionario sembra averci concesso di seguirlo in questura - il ricordo di Pinelli e del suo motorino mi giunge solo dopo il risveglio - ma il traffico, nella stretta via di casa nostra a cui il sogno ha cambiato senso di marcia, aggiunto alla neve che inizia a cadere abbondante, rallenta all'inverosimile il percorso, e permette a me che sono alla guida di svoltare a sinistra - valenza troppo banalmente simbolica per rilevarla - senza che mi sia ben chiaro se con intenzione di fuggire o per semplice automatismo vitale da automobilista consumato. Ci troviamo così, d'improvviso, nella stanza di un luogo appartenente alla polizia, sempre io con mia madre alla mia destra: vogliono farci confessare quanto sappiamo - o non, piuttosto, inventare quanto non immaginiamo? - circa la scomparsa di mia zia, realmente inspiegabile ad oggi, così come reale è stata per noi tutti un'intera mattinata davanti a due carabinieri, che fortunatamente sembrarono credere alla nostra estraneità ai fatti - confortò questa mia convinzione una loro apparente umana comprensione. Ora davanti a noi è seduto un giovane negro dagli incisivi radi ed immancabilmente candidi e densi come avorio, un principio di acconciatura rasta, maglietta stile Marines pallido verde oliva dal collo lasco: il prevedibile aspetto complessivo dell'agente sotto copertura che, con metodicità minacciosamente maniacale e sovraeccitazione direi mefistofelica, riordina di continuo gli oggetti di cancelleria sul tavolo che ci separa da lui, mentre alle sue spalle un agente di cui mi sembra d'aver un vago ricordo altrettanto vagamente rassicurante, passa più volte come ignorando, sapientemente, ciò che accade. Io mi accorgo di indossare una sorta di pigiama - mi hanno già abbigliato da detenuto o sono corso fuori di casa nell'abbigliamento più vulnerabile che mi potessi ritrovare addosso? - con i bottoni anche sulla patta dei pantaloni, la quale non nasconde un'inspiegabile quanto debole erezione: se ne accorge il negro, che con un dito lungo, spesso, dall'unghia invidiabilmente compatta e forte, mi sfiora quanto basta per richiamare l'attenzione di mia madre - chiaro l'intento mortificatorio, mi dico, accorgendomi di avere infilato un tubo trasparente di color rosso chiaro - è il tubo di un catetere, lo riconosco poiché era toccato in dolorosa ed umiliante sorte agli ultimi giorni di mio nonno, il padre di mia madre, morto nel mio ultimo anno di liceo, quando ero ancora abbastanza giovane per soffrirne sinceramente, sebbene mia madre l'avesse messo prontamente in dubbio dall'abbigliamento (degli anfibi blu scuro) con il quale sembrava intendessi partecipare al funerale. Vedo che il mio romanzesco inquisitore inizia a manipolare quel tubicino dal potere tanto sottile sui miei organi genitali quanto i suoi metodi da polizia politica sul mio desiderio di avere una qualsiasi cosa da confessare: urlo prima ancora di sentir male, nella sciocca speranza di impietosirlo, nella imperdonabile stupidità di non far altro che contribuire ad istigarlo. Urlo istericamente, soffocandomi quanto la paura mi impone: urlo come gli scheletrici prigionieri che, nel secondo episodio della saga, il reduce John Rambo tornava nella giungla a liberare; sortisco un'antitesi della pietà come la giovane costretta a mangiare merda al cucchiaio dal Duca nel Salò pasoliniano. Mi torna alla mente solo adesso che fu mio padre ad assecondarmi - avevo circa dieci anni - in quella infantile malattia di edonismo reaganiano: compiacendosi più volte, negli anni a seguire, di quella mia tenacia nel sopportare una fila, lì nell'atrio del cinema, durata quasi l'intera proiezione precedente, pur di non rinunciare alla visione - tenacia precoce che negli anni dell'università non perse occasione per accostare, impietosamente, a quella che sembravo aver smarrito negli studi e nello sguardo d'“ambizione” rivolto al futuro. Sempre mio padre che, rievocando con impaccio l'uscita di Salò nelle sale romane, commentò sbrigativamente con un verso di disgusto la visione cui pure, da giovane intellettuale, non volle né forse poté sottrarsi. Ora il negro, forse temporaneamente sazio o altrettanto nauseato dalla mia pronta, femminea risposta al richiamo del dolore, indica a mia madre alcuni visi e corpi scarabocchiati sul muro che lei ha alle spalle: le spiega essere scene di rapporti sessuali, sgraziati autoritratti di detenuti che ci hanno preceduti. Comprendo, ormai, quanto efficace sia in simili condizioni, e quali irreversibili effetti stia già sortendo, un simile diletto di chi esercita il potere su vittime così istintivamente sacrificali quali noi, cittadini medio borghesi - mediamente onesti, tolleranti e timorati - siamo. Anche il dolore fisico, infertomi sotto gli occhi di mia madre, assumerà una valenza preziosa ai loro ignoti scopi, e lascerà segni sui quali potremo versar asciutte lacrime solo in una eventuale futura liberazione che non sarà, è chiaro sin d'ora, mai più totale. Cerco di rassicurarmi, in questo risveglio amaramente prematuro: non certo con la scrittura, che non potrà mai essere altro da un rabbioso, miseramente parziale, risarcimento intellettuale. Mi conforto, piuttosto, con quelle gracili nozioni freudiane o junghiane strette al petto nel corso degli anni, tentando una sorta di automedicazione dell'assillante tentazione della più inutile e verbosa mortificazione di una seduta psicoanalitica. Ricordo poi con timido sollievo di essermi addormentato, la scorsa sera, sulle immagini de Il conformista: conforto vanificato, tuttavia, dal solerte ricordo della lezione di storia poche ore prima, in cui un alunno, tredicenne, ha commentato la deportazione tedesca e italiana degli anni trenta sospirando un 'Ci vorrebbe anche oggi, per gli zingari.' Gli ho chiesto di ripetere senza un reale bisogno che lo facesse, né un sincero desiderio di schiaffeggiargli quelle guance grondanti stomachevole opulenza esibita, con infaticabile italianità, di padri - o patrigni, ormai - in figli. Ha farfugliato un pavido 'Lasciamo stare...' sul quale mi sono limitato a chiosare che a lui si richiede di imparare la lezione da portare all'esame, ma anche di astenersi da simili stupidaggini. Così come a me si richiede di ingozzarlo di nozioni e non di impartire lezioni, né anche solo suggerire fuggitive riflessioni: beninteso, non che l'avrei fatto, non mi costa ammetterlo, qualora me ne fosse stata conferita autorità. Ho infatti esaurito, non senza colpa, ogni fiducia nella leale forza delle idee contrapposta alla razzia che in troppe coscienze compiono simili vigliacche violenze: mi resta soltanto il colpevole timore di finire, un giorno, come a Parigi quel vecchio professore.

5.5.12

STRACCI DI NUBI

Qual colpevole vittimismo
sarebbe vigliaccamente implicito
nell'indulger all'idillio
- familiare rifugio d'un didascalico lirismo -
in questa sbocciata piaga
ch'è d'ogni maggio,
in questa solitudine
che si fa nostalgia d'ogni cosa:
vite perdute, vite attese, vite mai trovate.

Alla luce d'ogni sole
schiavo d'impotente rancore,
da candidi stracci di nubi
ora concessa, ora negata, ora promessa.

5-5-2012

3.5.12

QUALCUNO TORNA INDIETRO

"Ora lo sai, nessuno torna indietro. Ed io non sono più io: è inutile che pensi a me."


Le immobili, feroci
albe romane.

Albe vuote,
eco di milioni 
d'anime lontane.
Le stesse albe 
dove muore un amore,
nel muto ordine di lasciare 
una vita che non c'è più 
per una che nessuno sa
se mai ritornerà.

Quelle impietose, atroci
albe romane.

Le albe di Petri e del suo assassino
senza colpa né redenzione,
le albe di Pietrangeli e di una lei
che conosceva bene soltanto lui:
albe ch'essi ebbero forza 
dentro occhi per guardare.

Ma per chi, e cosa mai
ne potrà restare,
al termine di una strada 
desolata da attraversare,
in un qualunque 
nostro figlio provinciale:
inconfondibile trafelato zelo
nel fondersi all'eterna ignavia vitale
della sua, nostra più grande provincia...
'a Capitale.

1.5.12

MIO PRIMO, ULTIMO MAGGIO

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile
...”

Questa volta ho rinunciato: le mie poche parole lasciate chiuse nell'anacronismo d'un tascapane male indossato. Questa volta mi sono forzato: su quei pochi passi tra un palco ormai vuoto ed un parcheggio stancamente affollato. Questa volta è stato De André con il suo Brassens che mi ha ispirato, finché da un sogno non amaro né spietato sono stato compensato. Il sogno di te, in una notte di parole per voce fraterna, dentro occhi d'una trasparenza che non poteva saper mentire meglio del disincanto d'un mio intuire. Una notte di umanità inspiegabile in me che un giorno dopo l'altro, in metodica devozione, alle spalle l'ho abbandonata.
Poi l'addio che la mia stessa nostalgia riusciva a credere un arrivederci: nell'alba in cui sentivo, senza timore, ciò che di universale ha l'amore; quell'alba ancora buia che prima di questo risveglio da me ti portava via: come il solo mio Pier Paolo prima di te, come in un romanzo, come forse anche tu ricordi.
Nella memoria - ormai indimenticati, mi dicevo - il calore d'un abbraccio nel tuo sorriso, la promessa nelle tue parole che infine prendevano con sé i miei versi e, insieme, il meglio di me, chiamato con quel nome che mi hanno dato ma poi così poco usato: 'Alessandro, non credo proprio tu abbia conti aperti di dimestichezza con la lingua italiana. Forse il problema è solo che pensi troppo.' - un'imperdonabile ovvietà, avrei detto, non fosse stato per la sua profonda, intima onestà. Alla luce della quale, come, dunque, poter meritare il tuo soave non tradire alcuna nauseata compassione verso quell'incallito servilismo, mio solo ereditario automatismo di famigliare educazione?


Vi osservavo, giovani,
senza sentire il bisogno
di richiamare quei miei vent'anni,
quella più ambita piazza italiana
colma d'un aspro rosso tiepido,
dolce sterco d'hashish frenetico,
tra spinte incuranti di donne già fatte,
spallate perentorie di uomini già mancati,
sino ai margini del vostro festoso ringhiare,
del mio funebre carnaio:
dove poter guadagnare
il primo vuoto, ignoto viale di Capitale.

Vi invidiavo, giovani,
poiché nulla rimpiangeva
quella mia atavica fame di gioventù:
vi osservavo e nulla, di voi tutti, mi mancava.
Non uno tra voi trovavo
che fosse allegro, se non nelle risa d'isteria,
non uno spontaneo compativo,
perché neanche in quei cori 
di unisoni obbligatori,
un sincero impaccio io avvertivo.

Nell'eco sorda d'orecchi chiusi, timore
di non sentir più, come il cuore 
nel retrogusto amaro 
di matura delusione, 
invecchiata rassegnazione, 
al fondo d'ogni dolore. 
Dove non uno solo vedevo,
in nessuno riconoscevo
la sola perduta nostalgia
della mia giovane, clandestina malinconia.

30/4/2012


A Pier Paolo Capovilla,
perché nella sua grazia non m'inganni,
ed anche il suo nome
serbi una mitezza che è predestinazione:
scandalo perduto di cristiana violenza.