SOGNO
NUMERO DUE
“C'è
lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.”
Questa
notte io e la mia famiglia siamo fuggiti dalla nostra casa. Mia madre
correva a chiamarmi, e con il suo irrinunciabile tono di rimprovero
di chi richiama, esortando a fare qualcosa che, del tutto
arbitrariamente, ritiene già ovvio, mi urla sottovoce che 'C'è la
polizia dentro la polizia!'
Non
capisco dove siano e se dobbiamo consegnarci spontaneamente, oppure
tentare di fuggire sia ancora possibile (non capisco perché
fuggiamo, soprattutto, ma fuggire dalla polizia mi sembra, quello sì,
istintivamente logico): c'è una grossa auto bianca di marca
americana -
una Chrysler, mi sembra -
davanti al cancello del cortile, e per un attimo penso sia lì per
aiutarci a fuggire. Poi però diventa una vecchia ammiraglia
Mercedes, guidata da un anziano funzionario che ha accanto la figlia
adolescente di un condomino della scala opposta alla nostra,
catechista ai tempi della mia
cresima ed ora padre di famiglia
religiosamente prolifica. Ci sediamo dietro, io e mia madre -
prima, nella trafelata discesa delle scale, le avevo chiesto cosa
avrei dovuto rispondere ad eventuali domande e lei, sempre con
quell'autoritaria
impazienza, mi aveva ammonito a non dire la verità (...quale?) e,
subito dopo, a ripetere
semplicemente quanto avevo detto
a lei (...cosa?): insomma,
rispondere a
qualsiasi domanda senza timore.
Frattanto, da
quel
sedile
posteriore
la disinvolta implausibilità del sogno ci colloca alla guida di
un'altra auto con cui l'anziano funzionario sembra averci concesso di
seguirlo in questura -
il ricordo di Pinelli e del suo motorino mi giunge solo dopo il
risveglio -
ma il traffico, nella stretta via di casa nostra a cui il sogno ha
cambiato senso di marcia, aggiunto alla neve che inizia a cadere
abbondante, rallenta all'inverosimile il percorso, e permette a me
che sono alla guida di svoltare a sinistra -
valenza troppo banalmente simbolica per rilevarla -
senza che mi sia ben chiaro se con intenzione di fuggire o per
semplice automatismo vitale da
automobilista consumato.
Ci troviamo così, d'improvviso,
nella
stanza di un luogo appartenente
alla polizia, sempre io con
mia madre alla mia destra: vogliono
farci confessare quanto sappiamo - o non, piuttosto, inventare quanto
non immaginiamo? - circa la
scomparsa di mia zia, realmente inspiegabile ad oggi, così
come reale è stata per
noi tutti un'intera
mattinata davanti a due carabinieri, che fortunatamente sembrarono
credere alla nostra estraneità ai fatti - confortò
questa mia convinzione una loro apparente umana comprensione. Ora
davanti a noi è seduto un
giovane negro dagli incisivi radi ed
immancabilmente candidi e densi come avorio,
un principio di acconciatura
rasta, maglietta stile Marines pallido verde oliva dal collo lasco:
il
prevedibile aspetto
complessivo
dell'agente sotto copertura che, con metodicità
minacciosamente maniacale e sovraeccitazione direi
mefistofelica, riordina di
continuo gli oggetti di cancelleria sul tavolo che ci separa da lui,
mentre alle sue spalle un agente di
cui mi sembra d'aver
un vago ricordo altrettanto vagamente rassicurante,
passa più volte come ignorando, sapientemente,
ciò che accade. Io mi
accorgo di indossare una sorta di pigiama -
mi hanno già abbigliato da detenuto o sono corso fuori di casa
nell'abbigliamento più vulnerabile che mi potessi ritrovare addosso?
-
con i bottoni anche sulla patta dei pantaloni, la
quale non nasconde
un'inspiegabile
quanto debole erezione:
se ne accorge il negro, che con un dito lungo, spesso, dall'unghia
invidiabilmente compatta e forte, mi sfiora quanto
basta per richiamare
l'attenzione di mia madre -
chiaro l'intento mortificatorio, mi dico, accorgendomi di avere
infilato un
tubo trasparente di color rosso
chiaro -
è il tubo di un catetere, lo riconosco poiché era toccato in
dolorosa ed umiliante sorte agli ultimi giorni di mio nonno, il padre
di mia madre, morto nel mio ultimo anno di liceo, quando ero ancora
abbastanza giovane per soffrirne sinceramente, sebbene mia madre
l'avesse messo prontamente in dubbio dall'abbigliamento (degli anfibi
blu scuro) con il quale sembrava intendessi partecipare al funerale.
Vedo
che il mio romanzesco
inquisitore inizia a manipolare quel tubicino dal potere tanto
sottile sui miei organi genitali quanto i suoi metodi da polizia
politica sul mio desiderio di avere una qualsiasi cosa da
confessare: urlo prima ancora di sentir male, nella sciocca speranza
di impietosirlo, nella imperdonabile stupidità di non far altro che
contribuire ad istigarlo.
Urlo istericamente, soffocandomi
quanto la paura mi impone: urlo come
gli scheletrici prigionieri che, nel secondo episodio
della saga, il reduce John Rambo tornava nella giungla a liberare;
sortisco un'antitesi della pietà come la giovane costretta a
mangiare merda al cucchiaio dal Duca nel Salò pasoliniano. Mi torna
alla mente solo adesso che fu
mio padre ad assecondarmi -
avevo circa dieci anni -
in quella infantile malattia
di edonismo reaganiano: compiacendosi
più volte,
negli anni a seguire,
di quella mia
tenacia nel sopportare
una fila, lì nell'atrio del
cinema, durata quasi l'intera
proiezione precedente, pur di non rinunciare alla visione - tenacia
precoce che negli anni dell'università non perse occasione per
accostare, impietosamente, a quella che sembravo aver smarrito negli
studi e nello sguardo d'“ambizione” rivolto
al futuro. Sempre
mio padre che, rievocando
con impaccio l'uscita di Salò
nelle sale romane, commentò sbrigativamente
con un verso di disgusto la
visione cui pure, da giovane intellettuale, non volle né forse poté
sottrarsi. Ora
il negro, forse
temporaneamente sazio
o altrettanto nauseato
dalla mia pronta, femminea risposta al richiamo del dolore, indica
a mia madre alcuni visi e corpi
scarabocchiati sul muro che lei
ha alle spalle: le spiega essere
scene di rapporti sessuali, sgraziati
autoritratti di detenuti che ci hanno preceduti. Comprendo, ormai,
quanto efficace sia in simili condizioni, e quali irreversibili
effetti stia già sortendo, un simile diletto di
chi esercita il potere su
vittime così istintivamente sacrificali quali noi, cittadini medio
borghesi - mediamente onesti, tolleranti e timorati - siamo. Anche il
dolore fisico, infertomi sotto gli occhi di mia madre, assumerà una
valenza preziosa ai loro ignoti scopi, e lascerà segni sui quali
potremo versar
asciutte lacrime solo in una eventuale futura liberazione che non
sarà, è chiaro sin d'ora, mai più totale. Cerco
di rassicurarmi, in questo risveglio amaramente prematuro: non certo
con la scrittura, che non potrà
mai essere altro da
un rabbioso, miseramente
parziale, risarcimento
intellettuale. Mi conforto, piuttosto, con quelle gracili
nozioni freudiane o junghiane strette al petto nel
corso degli anni, tentando
una sorta di automedicazione
dell'assillante
tentazione della più inutile e verbosa mortificazione di una seduta
psicoanalitica. Ricordo poi con
timido sollievo di essermi addormentato, la
scorsa sera, sulle immagini de
Il conformista: conforto
vanificato, tuttavia, dal solerte
ricordo
della lezione di storia
poche ore prima, in
cui un
alunno, tredicenne, ha commentato la deportazione tedesca e italiana
degli anni trenta sospirando
un 'Ci vorrebbe anche oggi, per gli zingari.' Gli ho chiesto di
ripetere senza un reale
bisogno che lo facesse, né
un
sincero desiderio
di schiaffeggiargli quelle guance grondanti stomachevole opulenza
esibita, con
infaticabile italianità, di
padri
- o patrigni,
ormai - in figli. Ha farfugliato un pavido 'Lasciamo stare...' sul
quale mi sono limitato a chiosare che a
lui
si richiede di imparare la lezione da portare all'esame, ma anche di
astenersi da simili stupidaggini. Così
come a me si richiede di ingozzarlo di nozioni e non di impartire
lezioni, né anche solo suggerire
fuggitive
riflessioni: beninteso,
non
che l'avrei fatto, non mi
costa
ammetterlo, qualora me ne fosse stata conferita
autorità. Ho infatti
esaurito,
non senza colpa, ogni fiducia nella leale forza delle idee
contrapposta alla razzia che in troppe coscienze compiono simili
vigliacche
violenze: mi resta soltanto il colpevole timore di finire, un giorno,
come a Parigi quel vecchio professore.