6.2.11

E ABBIAMO DIMENTICATO I NOSTRI CORPI INADEGUATI

C'è chi vuole esporsi più che guardare. Mostrare il proprio cazzo prima che sbirciare una fica. Una forma di esibizione e insieme di voyeurismo. Per Michel Houellebecq il percepirsi sessualmente desiderabili è fonte di eccitazione: la fonte principale, a quanto pare. Forse anche fonte di eccitazione, sicuramente condizione necessaria, per quanto mi riguarda. In casi di repulsione verso il proprio corpo e conseguente crollo del desiderio, ci si immagina qualcun altro, qualcuno a cui delegare il ruolo che non si riesce ad interpretare personalmente nelle proprie rappresentazioni autoerotiche. Questo qualcuno che facciamo copulare in vece nostra, a beneficio della nostra eccitazione, ha caratteristiche generalmente provenienti dall'immaginario erotico più massificato e democratico: la pornografia. Ecco la spiegazione, o una possibile, degli ossessivi tentativi di esibizione delle proprie fattezze, reali o immaginate tali, di cui molti utenti della rete, donne generalmente, lamentano scioccamente scandalizzate il dilagare.
Esibizionismo-guardonismo che dovrebbe rimanere confinato al virtuale, se ciò può tranquillizzare. Virtualità rigorosamente inviolata non certo a tutela dello spettatore ma dell'esibizionista che, se si azzardasse a trasferire nella realtà quella dimensione immaginaria, la vanificherebbe, insieme con l'eccitazione che ne sgorga. Come partecipare anzichè guardare un film porno, che da estremo rifugio dalla collettiva mortificazione del desiderio, diverrebbe rara esperienza di traumatica impotenza. 

3.2.11

 COME IN UN ROMANZO

Non ricordo quasi niente di quel giorno. Vorrei, per raccontare come custodire la mia vita.
Ma non mi resta che quel treno nel dopopranzo, quell’unica valigia a tirarmi il braccio, quei soldi accettati da mia madre con colpevole speranza di restituirli. Non resta che un treno, una valigia, dei soldi: niente che sciogliesse o sciolga qualcosa nel petto. 
Parte del niente che mi lasciavo dietro quel giorno.

Una domenica di fine agosto, quattro anni fa. Un tempo che avrebbe dovuto indurirmi dentro e fuori, fermare le emozioni prima che arrivino ad urtare il guscio interiore. Invece spaventa più adesso, nel ricordo, quel posto in cui mi attendeva un lavoro preso sulla parola, un solo potenziale amico, un passato che da poco non faceva più tremare. Melodramma di un amore finito male, più semplicemente finito. Un amore banale. Un sogno usato, mi ripetevo banalmente, tremante.

Gli altri andavano a Bologna a studiare, io ci andavo laureato. Loro tra bevute gucciniane, io tra ronde di Cofferati. Ma in fondo nemmeno questo ci distingueva. Arrivavo, in ritardo, per il loro stesso motivo: non farcela più in provincia ma non farcela ancora, forse mai, in una metropoli. Tutti nell’acquario dell’utopia. Acqua tiepida, immobile di nostalgia.