30.6.11

DISCOUNT, CASSA 1

Solo un paese autenticamente moderno è capace di trattare i vecchi come meri rifiuti.”


Vi osservo accumularvi:
ronzio rado,
poi sempre più minaccioso,
tra gli ambiti punti d'ombra
del pargheggio tremolante, polveroso.

Vi sento premere piano,
tenacemente
sulle porte intelligenti
della mia gabbia trasparente.

Vecchi a sciami
- per i timidi o beffardi: anziani.
Soli, in coppie. Lei in avanscoperta, lui a coprire.
Ben vestiti, come in un pomeriggio dal dottore o una mattina per la pensione
- la stessa, anacronistica miseria composta.
O lasciatisi ormai andare: ciabatte strusciate, buste di plastica rugose.

Spauriti come bambine alla prima comunione
o bambini al primo conflitto mondiale.
In ipnotica contemplazione, tra reverenza e incomprensione,
di deflagrazioni cromatiche su ripiani inarrivabili.
Si trascinano traballanti, penosamente prudenti
lungo corsie senza fine apparente.

Finché l'ignota, antica luce
scosta il velo delle loro cataratte:
il 75% sulla merce semiavariata.
¼ del prezzo di tutto quello che domani,
per legge, andrà buttato.

Verso l'alto, protesi ad afferrare.
Istericamente dimentichi del resto da contare.
Poi via, su bus asfissianti, viali velenosi
anche loro, una volta ancora, a consumare.
Affannarsi ad anticipare la data di scadenza 
di quella guasta esistenza.

Il mio sguardo estraneo spettatore
freddo d'odio come d'amore,
di speranza oziosa, impotente
che l'apocalisse annunciata
d'ogni welfare, d'ogni pietà codificata
diradi questo sciame penitente,
arresti il suo esodo
senza luogo, senza fine 
apparente.

29.6.11

LEGGERE PASOLINI AL SUPERMERCATO

Le vent se lève, il faut tenter de vivre.”


Il mio cuore fu così colmo,
così teso da presagire
di strapparsi, un giorno,
spargendo di sé tutto intorno.

Questo mio cuore lacero,
impotente a distogliermi
dal richiamo d'odio primordiale.
Questo cuore ha lasciato
che anch'io ti ferissi,
che fossi causa tra tante, anonime
del tuo male.

Tutto ciò per cui ha pulsato
fino allo spasimo fatale,
nulla ha potuto
- suggerisce questa sterile amarezza
su quell'odio naturale,
la bestiale sopraffazione
con cui uomo sopravvive, inconscio
al più debole suo simile:
nutrendosene per non vivere,
per non morire.

Una miseria così banale, universale.
Così antica, oscura come il nostro male.

Reso, oggi,
in un giorno solo,
nelle povere tue parole,
a questa mai recisa nudità infantile.
Le vene fili d'alta tensione,
febbre malarica mi corrode:
l'inetto timore
della fragile dolcezza
che oggi, misteriosamente,
ti sopravvive in cuore.
L'inerme presagio
che domani ceda all'odio:
cada ai colpi sordi, pazienti
del dolore,
tra le macerie di un'ultima, distratta
tua compassione.

Che giunga puntuale
o arbitrariamente scongiurato,
conoscere, come sottrarsi, non è dato 
- mi ammonisco vestendo un liso coraggio,
mandando a memoria una prolissa intimità con l'esistenza;
ripetendomi, senza forza né illusione,
bisogna cercare di vivere, in fondo;
nell'incoscienza di significato, nell'indifferenza a quanto tributato.

Che vivere sia,
nella sola morte rassicurante,
il come, il quanto
ignorare.
Che vivere sia
alla vita abdicare.

A lei,
quando e quanto
farci morire.

28.6.11

L'INDUSTRIA CULTURALE

Il grado di civiltà del nostro paese, dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo, gli italiani avranno letto.”


Mi danno la tachicardia, librerie come la Feltrinelli.
Inutile, impreciso dire che in quel frastornio seducente
non ci sia nulla di promettente.
Ogni volta, ogni volta mi ripeto di non entrare:
ogni volta cedo alle luci del consumismo culturale.
Le copertine intonse, perentorie come epidermidi
dense, compatte, arrogantemente sane
- immuni pesci in acquario 
a quella luce chirurgica 
che dai primi segni d'acne preadolescenziale
mi denuda, sapientemente mi fa del male.
Le epidermidi delle giovani, delle donne
in cuoio tedesco e argento africano:
mollemente adagiate in ogni ultima declinazione
del radical chic più compiaciuto, assimilato.
Incuranti dei prezzi di copertina
come della mole di parole, forse idee, che le cingono,
esse liquidano o scelgono con la crudele leggerezza,
la frivola, ostentata o inconsapevole, distrazione
che gli conferma, rassicurante, la propria eletta condizione.
Scelgono come tra gli assillanti desideri pulsanti
dei loro immancabili uomini, futuri o presenti.
La cultura non è mai morta.
La cultura è sana come non mai, qui dentro, tra di loro.
Come queste carni apparentemente sottratte al tempo,
ad ogni suo distratto, capriccioso accidente.
E' sana, florida la cultura
che come i suoi corpi è da sempre affermazione, conferma.
La cultura che non ha nulla dell'esitazione, del dubbio,
che non conosce sospensione di giudizio, attimi di fecondo pudore.
Come la fiera adesione ai referendum “popolari”:
collettiva mobilitazione individualistica
battezzata giovane fuoco civile,
rinnovato sentimento di collettiva appartenenza.
Quando, se aggregazione di piazza ci fu, vi si aggiunse,
fu solo una concessione della cronica solitudine,
nella sua invadenza troppo asfissiante, nella circostanza.
“La rivoluzione non è più che un sentimento.”
La rivoluzione non è più un sentimento.

27.6.11

UN UOMO SOLO

Un uomo che sa capire il momento, godere la vita, giocare col vento...”


Il paese in cui vivevo, in quel tempo,
si trascinava verso un tramonto
di cui non si scorgeva,
di cui non si poteva che intuire
la necessaria fine.

C'era un uomo solo al comando di quel paese.
Era il suo capo nominale e, insieme,
l'uomo che più fedelmente aveva rappresentato
quel paese così lentamente tramontato.
Quell'uomo sapeva contemplare il crepuscolo
senza apparente timore, solo esibita soddisfazione:
con lo strumento noto ai più e concesso ai meno.

Canalizzando le affannate emozioni
della propria impietosa, fatale
consunzione strutturale
verso il pene, la testa, il cuore.
Svuotando ogni centro del dolore, dello smarrimento, della nostalgia
di ogni stilla di sangue, di ogni dolente, inutile pulsione;
delocalizzando ogni risorsa nei centri più efficienti di produzione endorfinica:
il potere, il coito, l'immaginazione.

Non godeva della redditizia aura reverenziale
dell'icona ambigua quanto provinciale
che il longevo edonismo dannunziano
aveva saputo importare.
I tempi erano cambiati,
l'esternazione del malumore
non aveva mai conosciuto
una più scomposta ed indolente
varietà d'espressione,
una più fanatica e funzionale
tutela formale.
L'espressione, facile intuirlo dalle vacue, chiassose esternazioni
di nulla più che una rancorosa, sterile confusione.

Dunque molti odiavano quell'uomo
per pura mancanza di alternativa.
Lo odiavano innocuamente
per noia, solitudine, pallido desiderio di aggregazione,
estrema disperata consolazione, dopo il sesso senza amore.
Lo odiavano perchè li costringeva a ricordare,
con il suo gusto per l'esibizione vagamente compiaciuto,
ciò che avrebbero voluto essere, afferrare
ma gli era sfuggito, lasciandoli a guardare.
Lo odiavano come si odiano tutti i vecchi,
nel culto della modernità,
aggiungendovi il livore
verso l'eletta condizione
di chi forgia la regola per gli altri,
tenendo per sé l'eccezione.

E storicamente incapaci di sviluppare
una qualche familiarità
con quella semplice, arcaica regola
che preclude ai troppi nessuno
le tre uniche larghe vie
senza frustrante, assurdo ritorno,
alcuni tra questi nessuni
profusero le residue miserie intellettuali
in demagogiche, altre topografie esistenziali.
Ma troppo debole
fu la loro immaginazione
per ricavarne vitalizio profitto,
salvifica gratificazione.


Al primo ministro popolare,
Presidente di tutti gli italiani

24.6.11

ANDATI

"Vai Dino, cammina più in fretta, corri lontano, la vita è piccola e troppo vasta è l'anima."


Quelli che voi direste pazzi.
Quelli con dentro un dolore più forte di loro:
un dolore che un giorno gli ha strozzato il cuore.

Quelli che camminano, camminano senza posa e senza luogo.
Che ad attenderli ci sia casa o solo strada.
Che qualcuno ancora si sacrifichi per loro 
o siano soli, dentro e fuori.
Che scompaiano in un mattino eterno - foglio di via o ricovero coatto.
Che tornino più scarnificati ancora - barcollanti di stupri al litio, squassati da scosse epilettiche
o sfuggiti una volta per sempre a quelle cure amorevoli, disperate, prepotenti - barba fatta, buste di plastica nuove.

Non c'è fine al loro andare. Se non quella, forse pietosa, quella naturale.
Non c'è luogo in cui far tacere le parole 
che come i cani li seguono fedeli.
Non c'è forza per allentare la stretta in gola
che sembra cedere per poi tornare: un giorno, un altro, ancora.

Soli sulle loro strade:
mai protetti
da accecanti lamiere a interessi zero,
mai resi impenetrabili
da arroganti lenti scure firmate.

Mai illusi di sfuggire a quel cammino di dannazione:
solo speranza, arcano istinto di conservazione
di non doversi fermare, non ancora.

Quando l'ombra rimasta dietro, fedele
nell'ultimo giorno prenderà il corpo:
per ricongiungervisi,
per ritornare
una cosa sola.

23.6.11

UN GIORNO UN'ESTATE

La tua schiena, nuda.
Vento caldo 

tra le sbarre dei miei occhi
- corridoi vuoti 

di lunghe, opache finestre.

La tua schiena, pura.
Immobile

in questo morto tempo.
Lo stesso colore eterno d'estate.

Ma così viva, tu
scaldarmi il sangue
come nessuna luce, mai
la pelle.

E di quel vento
cui ti lascio andare,
non resta che miseria
d'un cieco cercare

Perché non so trovare 

a ciò che solo
viene, accade

Se c'è 

un perché, se c'è: 
in me, in te,
nell'umano esistere, è...
 

Vogliamo vivere.
Non lo sappiamo fare.

E ci strappiamo 

vite a brani: 
che non vediamo,
possiamo solo toccare.


Ci sono ragazze, o anche donne, che al di là della loro età, delle loro esperienze, filosofie, omologazioni esistenziali, ricevono, e conservano, insieme alla vita, qualcosa di puro. Puro in senso kantiano: precedente ed immune all'esperienza, intesa come realtà fenomenica tutta, la realtà che cade sotto i nostri sensi. Sia nel loro viso o nelle loro mani, sia steso come un velo luminoso su tutto ciò che di loro ai sensi altrui possano offrire, questo qualcosa di puro nulla ha a che vedere con bellezza o dolcezza; non comunemente intese, almeno: cioè nella loro accezione calda e rassicurante, propria dell'aspettativa vitale umana ed animale. Questo qualcosa, sarebbe anche improprio e spesso fatale interpretare in termini di kalokagathia. Esso non ha valenza etica e morale, né ha nulla di caldo, animale, riconoscibile e rassicurante, proprio perché è anteriore ad ogni formulazione razionale ed emotiva derivante dall'esperienza e dalle sensazioni empiriche. Le quali, invece, presuppongono, consciamente o meno, al concetto di dolcezza e bellezza qualcosa di prevedibile e circoscrivibile, qualcosa di percepibile sulla base di criteri stabiliti a priori. Se proprio si volesse ricorrere alle categorie di bellezza e dolcezza, questa ineffabile purezza avrebbe la bellezza insieme irresistibile e temibile del lamento fondo dei mari, la dolcezza dei silenzi irreali delle nevi. La "straziante bellezza del creato"; la bellezza, aggiungerei con più modesto estro poetico, di tutto ciò che, pur attendendoci fin dalla nostra venuta in questa realtà sensibile, ed accompagnandoci sino alla dipartita, rivela ai nostri sensi solo una parte della propria essenza: ciò sia per nostra limitatezza percettiva, sia per sua intrinseca natura, solo parzialmente immanente. Tutto ciò che, per quanto storicamente noto e circoscrivibile, non è mai del tutto assoggettabile e prefigurabile. Mai del tutto familiare, nella sua intrinseca natura terribilmente pura.



A Robiello
e le sue "allegrie di naufragi"

22.6.11

NONNO'

Nonnò, una mattina ancora gli occhi chiusi.
Una mattina ancora caffè bruciato, malocchio, nazionali ciancicate, segni di croce senzadio.
Una mattina ancora senza vederti più arrivare: 
uscita di scuola, quaranta minuti di lacrime ingoiate, dannate a mezza voce
che poi all'ultimo stavolta non sbucherai in fondo al viale necrotico residenziale
Che poi all'ultimo non sarai più solo tu, per me, il mondo intero:
il tuo scialle, le tue ciavatte, il tuo pappone dei gatti, i tuoi occhi.
I tuoi occhi gialli, i tuoi occhi vuoti, i tuoi occhi fissi, i tuoi occhi muti
- ipnosi di assistenti sociali, fermate soppresse, case popolari

Nonnò, una mattina ancora di groppi in gola
davanti a bancarelle in fiore, busti del Duce, cani senza padrone
davanti a quello che, t'hanno detto, dovevi rimettere a Dio.
Nonnò, il loro Dio è morto.
Tre di notte, tre d'agosto: corsa finita faccia al muro come bambini in punizione
lamiere, corpi lapidati come il figlio di quel Dio
- Tiburtina, ambulanza, è un casino!
Le gabbie tutte sfondate, le donne e le bambine tutte volate,
tutte di nessuno adesso.
I tedeschi avvelenati dalla minestra:
trenta teschi di cera sciolta al sole, alle mosche, al silenzio.



A mia nonna, che mi ha insegnato a guardare
Ad Allen Ginsberg, che mi ha insegnato a ricordare

20.6.11

CORRI E NON VOLTARTI

Rimanevi lì, 
le tue pagine sgualcite 
di lacrime che non scendevano
di pena un grumo nero in fondo al petto.

Rimanevi lì, 
a rubare al sole una carezza ancora, una sola
prima di scendere giù, dietro alle case nuove
prima di sfiatarsi appresso alle nuvole grosse 
che in quei cortili ci sono cresciute,
che su quell'erba spelacchiata la palla non gliela fanno vedere.

Rimanevi lì, 
nella pelle di quand'eri piccola
nella pelle tiepida di un'estate ancora, una sola
prima che motorini e stazioni e farmacie di turno
se la venissero a prendere, se la venissero a tenere
per sempre.

Qui, l'avevi potute sentire le mura
qui l'avevi potuto imparare 
che sarebbe stato tra le tante tantissime braccia 
di quei portici di quegli umidi di quei bui,
l'amore la libertà la merda 
che sola ti saresti cercata, che tu ti saresti voluta.

Lì, non ci sono mura
lì non c'è pena, nessuna.
Lì saranno strade giorni cieli
che non potrai sapere una vita sola,
che non avresti saputo tante, infinite 
vite sole.
Lì, non finirà. Finirai prima tu.


Estate 2002

17.6.11

LA VITA NON È UN FILM

Mi parlavi di risorse limitate, della tua pelle rovinata”


Mi parlavi di un futuro.
Un futuro di cui sai troppo
perché non muoia lentamente
in questo tuo presente.

Mi parlavi di ciò che, sai,
ormai sarai, 
mai avrai.

La chiamavi angoscia, ieri.
Oggi depressione.
Mai con il suo nome.

Ma tu non sei una Vitti di Antonioni.
Non sei mai stata i tuoi genitori:
magri ingordi di beni materiali,
saccenti analfabeti sentimentali.

Tu che se figlia volessi mai sentirti,
forse solo dei tuoi nonni potresti dirti.

E a questa poetica, irreale alienazione
renderesti il suo vero nome.
Non più comune, 
angoscia o depressione.
Ma proprio, 
dolore.

16.6.11

ORA APERITIVO

Quale tua amica, chissà
oggi a chi ti porterà
Premura di toglierti a quel passato
che a lungo ti aveva profetizzato.

Chissà, chissà
chi leggero si proporrà
di brillante e sportivo,
per ora,
quale umano aperitivo.

E tu, solitudine sacrificale
a nutrire
l'impietoso narciso maschile,
il solo fraterno femminile.

15.6.11

DUE MISERIE

Ogni animale è triste dopo il coito”


Adolescente: sete di desiderio, fame di assoluto.
Due anni senza toccarti.
Un sacrificio necessario, ripetevi,
a qualcosa che doveva esserci,
che ci sarebbe stato.
A qualcosa che non sapevi.

Dio non c'era, o non si fece vedere.
Lei non era, o non ne volle sapere.

Venisti in un pomeriggio plumbeo, muto
di giugno:
la maturità incombente, come un congedo troppo formale
di chi abbia, o finga, premura di andare.
Venisti in un pugno chiuso come di rivoluzione,
come di rifiuto
rivolto a ciò che, credevi, ti avesse tradito.

Solo a ciò che eri stato, forse.
Ciò che aveva reso
ineluttabile, fatale
un desiderio così addomesticato,
un assoluto così limitato.


Da adolescente sentii in un convegno per giovani cristiani che la masturbazione è da rifiutare non in quanto peccato - anche un potere ormai anacronistico come quello aveva dovuto accettare che un approccio rozzamente precettistico e sanzionatorio non avrebbe più pagato – ma da rifiutare poiché, cito alla lettera, “non mantiene ciò che promette”. Questo mi riporta ad una summa più estesamente esistenziale, da Le conseguenze dell'amore: “La sfortuna non esiste: è un'invenzione dei falliti, e dei poveri”. Una premessa direi essenziale alla tesi iniziale: il concetto di promessa, fatalmente disattesa, ha sempre un elemento ingenuamente soggettivo: che scagiona, almeno in parte, qualsiasi crudele casualità o disegno del destino.

Quanto alla forzata evoluzione della propaganda cristiana - ancora efficace tra le folte masse di inabili al giudizio ed alla più semplice opinione personale - credo che per i residui pensanti, i termini del problema siano altri. La masturbazione, se pure si decidesse consapevolmente di rinunciarvi - e sarebbe impresa eroica di ribellione alla propria implacabile, bestiale destinazione - è un atto intimamente rivelatore dell'umana dannazione.

Dunque potrebbe essere questa la spinta a rinunciarvi: la sua insostenibile franchezza, non certo una presunta ingannevolezza. Essa svela infatti la strutturale solitudine dell'uomo, dopo l'atto appagato per un tempo così breve, da avvertire già nella testa un nuovo assillante desiderio prima ancora che il suo corpo abbia le forze per accoglierlo e tradurlo in un guizzo inguinale, in un'erezione.
Presagio questo, in giovinezza, della condanna senile.

Quello che chiamiamo piacere sessuale è, indubbiamente, un richiamo irrinunciabile.
Dunque come conciliare la natura coattiva, la necessità di fare qualcosa, con il piacere che si ritiene arrechi? Forse sarebbe più opportuno parlare di sollievo, piuttosto che di piacere.
Può dirsi piacere qualcosa di così evanescente in presenza ed insieme onnipresente in assenza? Qualcosa che, anche nel momentaneo appagamento, è braccato da un disagio così variamente articolato? Senso di colpa, solitudine, percezione di sé in quanto uomo: nudità, tutte, intollerabili.

14.6.11

IN NOMINE

Ma lei non sa cos'è un uomo medio! E' un mostro...”


Crudelmente tardiva, tronfia d'attesa
l'estate onnipotente ai devoti si palesa
Miracolo d'artificio naturale il Moderno seppe operare
nel rituale sacrificio balneare.

Tra radi curvi corpi, eretico pallore forse immune
alla timorata indegnità comune.
In scioltezza e circospezione studiata,
a rive non già evangelizzate,
un vecchio studente, una giovane impiegata
offrono le loro vergogne spogliate.

Lasciando sfilare nel rifiuto fermo ma cordiale
l'ennesimo accendino o bracciale,
il petto stretto, dolente pulsare
d'un retorico, ormai, Che fare?


Il mondo, la sua iniquità, nutre di una capillare colpevolizzazione la propria rigogliosa impunità.
La colpa che si è riusciti ormai a connaturare nell'uomo battezzato comune - sapiente maschera demagogica consegnata al semianalfabeta medio, al frutto molle della coltura di addestrato consenso e democratica predicazione che fu, ed è, la coatta scolarizzazione.

L'uomo medio, il grande illuso del libero pensiero, lasciato progressivamente libero di non contare né capire niente, o quasi – un quasi niente affatto casuale. Lasciato criminosamente marcire in un senso di colpa altamente funzionale all'occultamento finale della vera fonte del male.
Le sue misere forze profuse non più che in un tautologico, vagamente indirizzato 'Non mi dicono tutto': lamento infantile, inerme, cui mai si aggiunge il perché mai dovrebbero, quei vaghi loro; alibi forse cosciente del proprio non capire quasi niente.
Il suo disagio informe di chi attende, operoso e paziente, i resti della mensa padronale senza poter dimenticare gli occhi accusatori, digiuni, di chi in cucina confinato, sopravvive, "diversamente libero", di qualche boccone rubato.

Non che in un uomo medio la colpa sia del tutto assente ma, al di là della sua irrilevante entità individuale, ha una funzione semmai conservativa e non costitutiva del mondo come lo conosciamo. Ciò proprio in virtù della sua condizione di uomo medio: insieme di svantaggiato status sociale e di scarsa inclinazione al male che lo escludono a priori da qualsiasi ruolo decisionale nell'organizzazione sociale, sul destino del reale.
Facendo leva sulla sua mediocre inclinazione al male – per inabilità nel compierlo come per argine morale – chi invece vi abbia una propensione, naturale ed addestrata, e dunque concorra effettivamente a determinare la sorte generale, si premura di addossargliene la maggiore responsabilità - maggiore, non totale: ancora, niente affatto casuale. 
Con ciò che ne consegue:
Un'autocolpevolizzazione irreversibilmente nevrotizzante.
Saltuari, liberatori tentativi autoassolutori mediante atti di simbolica, vergognosamente offensiva solidarietà, rivolti alle assortite categorie di attuali schiavi in senso moderno e premoderno: dagli sms di donazioni ai picchetti dei ricercatori.
Un'illusione di soggettività - fuga onirica dalla propria schiacciante passività - derivante dall'equazione-mistificazione: senso di colpa = ruolo di responsabilità.
Una sempre più scomposta e dunque innocua rabbia verso un altro che si intuisce, esso sì, realmente determinante, ma che si è reso irrimediabilmente irriconoscibile, sfuggente.
    Concorre a consolidare tale rappresentazione d'insieme la celebrazione, nel dolo o nell'idiozia, della morte dell'ideologia. Quando invece alla base di questo ordine mondiale, reale, c'è un'ideologia ben più sofisticata ed efficiente di tutte quelle avvicendatesi storicamente. Tanto efficace quanto diversificata, essa si modella sulle inclinazioni personali onde ottenere una più profonda introiezione: forgia da una parte i naturalmente inclini ad un'adesione totalmente devota al Verbo del consumo – di cose, persone, di sé, dell'umana compassione – e lavora dall'altra su chi strutturalmente non è perfettamente aderente ad un fanatismo incondizionato, e dunque necessita, per dare il proprio contributo, di essere roso e insieme spronato da un classico, religioso senso del peccato, ora sapientemente laicizzato.

    La differenza evidente rispetto ai dogmi classici - metafisici delle religioni, o utopici delle rivoluzioni - sta nel precetto mai esplicitamente imposto, ma sempre suadentemente proposto. A conferma di un potere di persuasione che non necessita di alcuna prescrizione. Ma quest'ultima è una lezione niente affatto nuova, per chi volesse prestare attenzione...



    8.6.11

    LA MANO SULLA CULLA

    Il cinema non è del tutto inutile. Ciò è consolante, in parte.
    Ci sono film, alcuni, necessari. Altri, troppi, inutili.
    Ma che lasciano qualcosa - non inutile o necessario
    a chi voglia trovarlo e non scordarlo.

    La mano sulla culla è la mano che governa il mondo.
    Non ho mai sentito il bisogno di guardare questo film:
    solo nel suo titolo, il senso vero della vita nell'età detta felice.
    L'età che, dicono, nasca nel perimetro di una culla, si estenda a quello di una casa,
    e si compia con l'inoltrarsi, 
    a timidi passi, spaesati, o perentori, colonizzatori,
    soli o solitari là nel reale.

    Io non penso né ho mai sentito felice quell'età
    - di opprimente quanto esplicita impotenza
    ma provo a comprendere chi ancora lo fa:
    disgiungendo il concetto di felicità da quello di libertà,
    di consapevolezza da serenità.
    Una disgiunzione che dalla culla 
    spesso accompagna, rassicurante, fino all'estremunzione.
    Una brutale linea di demarcazione 
    tra gli ortodossi della felicità, sedati dal rimpianto,
    e gli eretici, arsi dalla ricerca.

    7.6.11

    NOI NO

    Noi sogni di poeti”


    A te,
    che quella mattina in classe
    pensavi, forse, già agli esami.
    A te,
    che tra disagio e pena sapevi
    d'abitarmi questi pensieri.

    Quella mattina in cui vagai
    nelle strade vuote del tuo quartiere.
    Vecchie piccole case
    ancora chiuse, quasi estate.
    Dietro le tende tirate
    noi, da grandi,
    come se le avremmo mai abitate.

    E un tempo c'era stato,
    senza vergogna ti avevo pensato
    farti grande nei luoghi
    in cui avevi dovuto essere piccola.

    Ma ormai sapevo,
    e allontanavo quel domani
    insieme con il pensiero:
    non lì, né con me
    avresti voluto
    diplomarti in fretta
    e via, andare.

    Un solo saluto
    senza voltarti, ricordare.

    Poi comprai qualcosa
    nella pasticceria mesta, polverosa
    che non sarebbe mai stata nostra:
    delle paste la domenica mattina,
    il gelato quando fa sera,
    le dita bollenti quando fuori gela.

    Con quel sacchetto in mano, l'apprensione di sciuparlo,
    salutai la tua strada, la casa, il cielo
    che ancora si lasciava confondere con il mare.

    Venni ad aspettarti davanti a scuola:
    quel misero pensiero tra le mani stretto,
    quel lieve addio in fondo al petto.

    Oggi, a scriverle,
    è solo ricordo
    anche il rammarico
    di non averle avute allora,
    queste o altre parole.
    Come in Dio, non trovare
    porta a credere, a sperare.
    E in quel tempo io credevo
    nelle parole che non avevo.

    Ma oggi so che tutto ciò
    che restò in me, soffocato
    non tacque invano, non fu peccato.
    Non avevo, né c'erano parole
    che le nostre vite avrebbero cambiato.

    Perché è vero,
    le parole sono tutto ciò che abbiamo.”
    Ma raramente
    quel tutto colma il niente.