28.6.11

L'INDUSTRIA CULTURALE

Il grado di civiltà del nostro paese, dipenderà anche, e in larga misura, da cosa, anche nel campo della letteratura di consumo, gli italiani avranno letto.”


Mi danno la tachicardia, librerie come la Feltrinelli.
Inutile, impreciso dire che in quel frastornio seducente
non ci sia nulla di promettente.
Ogni volta, ogni volta mi ripeto di non entrare:
ogni volta cedo alle luci del consumismo culturale.
Le copertine intonse, perentorie come epidermidi
dense, compatte, arrogantemente sane
- immuni pesci in acquario 
a quella luce chirurgica 
che dai primi segni d'acne preadolescenziale
mi denuda, sapientemente mi fa del male.
Le epidermidi delle giovani, delle donne
in cuoio tedesco e argento africano:
mollemente adagiate in ogni ultima declinazione
del radical chic più compiaciuto, assimilato.
Incuranti dei prezzi di copertina
come della mole di parole, forse idee, che le cingono,
esse liquidano o scelgono con la crudele leggerezza,
la frivola, ostentata o inconsapevole, distrazione
che gli conferma, rassicurante, la propria eletta condizione.
Scelgono come tra gli assillanti desideri pulsanti
dei loro immancabili uomini, futuri o presenti.
La cultura non è mai morta.
La cultura è sana come non mai, qui dentro, tra di loro.
Come queste carni apparentemente sottratte al tempo,
ad ogni suo distratto, capriccioso accidente.
E' sana, florida la cultura
che come i suoi corpi è da sempre affermazione, conferma.
La cultura che non ha nulla dell'esitazione, del dubbio,
che non conosce sospensione di giudizio, attimi di fecondo pudore.
Come la fiera adesione ai referendum “popolari”:
collettiva mobilitazione individualistica
battezzata giovane fuoco civile,
rinnovato sentimento di collettiva appartenenza.
Quando, se aggregazione di piazza ci fu, vi si aggiunse,
fu solo una concessione della cronica solitudine,
nella sua invadenza troppo asfissiante, nella circostanza.
“La rivoluzione non è più che un sentimento.”
La rivoluzione non è più un sentimento.

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