31.10.11

La miseria della filosofia

"E sarà il ritratto della miseria a confondersi con la miseria del ritratto."

"Hans Magnus Enzensberger mi fa pena quando dice che la televisione trasmette il nulla!"

Mea culpa che ho ceduto alle lusinghe d'autore (sic) come un'Annanale qualunque. Eppure l'avrei dovuto ben sapere che i Sorrentino e i von Trier sono spesso il nulla nella sua veste più presentabile e, dunque, indisponente. Ma tant'è...

30.10.11

ATEI IN CORSIA

Dio non c'è, ci sono soltanto dei.
Non in cielo, logicamente, ma tra alcuni di noi.
Siano primari, strutturati, specializzandi,
sono dottori, questo basta a celebrarli.
Al di sotto, d'intorno,
le loro ninfe, i loro coppieri:
gli inarrivabili del posto fisso, 
gli eletti di confraternite politiche,
gli iniziati di sette teocratiche...
infermiere, passacarte, barellieri.
Alcuni di noi, in una sala d'attesa,
interrogandosi, mentendosi, tremando
su significati, implicazioni, sottintesi 
di un responso, una diagnosi;
sperando, con le forze superstiti alle lacrime trattenute 
tra quei sottecchi d'indifferenze morbose che li circondano,
che sia o diventi tutto un niente,
che giunga accompagnato dal rimprovero ruvido
di un padre a cui nulla potrebbe mai capitare,
perché vola radente, lui, sulle puerili cure umane,
librato sulle ali di un camice ben stirato
oltre le nubi di malati, di congiunti, di vecchi annoiati 
che inseguono un solo tocco, istante d'eterna illusione,
un'estensione d'elezione in cui il male non li possa più trovare.
Dio non c'è, ci sono soltanto dei.
E cadono, a volte, da veri eroi:
come un medico curante
paziente e sereno in accettazione
della propria testa sanguinante.

29.10.11

SCIMMIE OBLIQUE

“Delle file di negri sfacchinavano a colpi di frusta, come formiche verticali.”


Li guardi, non puoi evitarlo
quello specchio opaco
della tua smarrita vergogna.
Li senti soffrire in silenzio,
in una lingua che non puoi capire,
espiando colpe di cui non v'è traccia
oltre la scorza nera della loro vita maledetta:
nessuna speranza né altra forza di reagire
- a cosa, non saprebbero poi dire.
 

Così ti educhi presto, autodidatta morale,
a dimenticare per sempre l'uomo
nascosto curvo, piegato, dentro di loro.
Per non dimenticare

quel distogliere lo sguardo senza mai esitare.
O potervi vedere altro, qualsiasi cosa
che, ferita, non costringa anche te a sanguinare.


A Celine,
dalle cui parole l'essenza del colonialismo,
la barbarie dell'uomo di legge morale,
impallidisce a sbiadita illustrazione

in qualsiasi manuale.

28.10.11

RICOVERI

Guardando scivolare 
lungo le stesse corsie 
rifiuti infetti seguiti da neonati
Odiando vecchie italiane 
ossute, avvinghiate ringhianti
a quegli avanzi di scarne vite
Amando giovani immigrate,
occhi enormi, spalancati,
figli minuscoli, nascosti quasi a scusarsi
tra le onde dei loro scialli, nei misteri dei loro petti
Sperando in scheggiati uomini fatti,
barbe guerriere, mani forti, dita fiere,
avanzare cauti, da eterni stranieri,
diritte le schiene nel rispetto dignitoso
più sconosciuto a quel servilismo 
disinvolto come decoroso
dei nostri ultimi, miserabili padri e madri,
nei nostri oggi cercati, ieri perduti.

27.10.11

FEROCI RADICI

Poter conoscere la propria madre e il proprio padre,
poco importa quanto devoti all'amore o all'odio,
saper intravedere dietro ad un ruolo quella donna e quell'uomo,
non dovrebbe che condurre al sollievo d'una conclusione:
rifiutare il matrimonio, la truffa del contratto, l'estorsione dell'unione.
E ciò, prima d'ogni ragione personale, ogni emulazione stagionale,
per la semplice come ogni atroce ragione
che miseria, rancore, sofferenza
sono già dispensati, equamente e a sufficienza,
sullo sfondo di ogni quadro familiare
perchè per quanto ingenui, per quanto martiri, 
altro se ne possa sopportare.


26.10.11

VEDRA', LA MORTE, CON I MIEI OCCHI

Un tempo tutti conoscevamo la morte:
non costretta a nascondersi,
camminava nelle strade delle nostre città,
entrava nelle case, potevamo sentirla
salire le scale, una ad una,
il passo esausto e determinato d'un magro esattore,
mentre speravamo che non arrivasse al nostro piano,
che non battesse al nostro portone.
La temevamo, quella morte,
sapendo chi era ma non cosa ci avrebbe chiesto.
Oggi la diremmo lontana, estranea
anche sedesse alla nostra tavola.
Oggi inspiegabile ed irriconoscibile la vogliamo.
Che si nasconda, che giunga alle spalle, nel buio,
se così deve essere, se non è concessa altra dilazione
ad un onesto pagatore.
Ma io credo di vederla ancora, questa morte,
negli stessi luoghi in cui sembrate averla dimenticata,
in ogni vostra vita dalla quale l'avete bandita.
E' nell'arroganza disperata
che ancora nutre, mai appagata,
la vostra morte d'altrui vita sacrificata.
Mi si mostra come un tempo,
dignitosa e non altera, irremovibile e non compiaciuta,
nei vostri giorni e nei vostri cuori
in cui delirio direste queste mie visioni.
La vedo nei figli che stringete,
nelle unioni che celebrate,
nei silenzi dietro cui riparate,
nelle sentenze con cui condannate:
nella vostra vita rifiutata, negata
come infinita.
La vidi anche in me,
quando invano provai ad emularvi,
a confondermi tra di voi.
E' dunque in voi, questa morte,
o soltanto negli occhi miei?

25.10.11

AND OUT COME THE WOLVES  

E' porno la mia sostanza,
onanista il mio trip,
corpo altrui la mia psichedelia...
coito invocato e mai accolto
il mio intimo, banale, appassito fiore del male.
Nulla di romantico nella sconfitta 

ad un inabile alla lotta inflitta.
Nessuna umana assoluzione, divina redenzione
per la mia complice schiavitù
a questa industria di cavie umane,
alla sua infaticabile produzione.
Tu, lupo sciolto lungo le strade,
il solo fardello difeso in petto
è un cuore colmo di sangue infetto,
in quel filo rosso il tuo espiare ,
la nera trama su cui i bambini
impareranno a non camminare.
Io l'orco, tu l'untore,
la nostra esemplare punizione
è la perenne, collettiva memoria di noi
che peccando invocavamo soltanto oblio a ciò che siamo.



23.10.11

RICORDO CHE HO VISSUTO

"I ricordi, queste ombre troppo lunghe del nostro breve corpo..."

I  ricordi, questo fardello polveroso e grave 
che ad ogni nuova partenza, in ogni nuova angustia d'approdo
non vogliamo abbandonare.
I ricordi, questi muti testimoni di una vita già vissuta,
questo alibi reazionario ad ogni nuovo rifiuto di vivere.
I ricordi, questa cassapanca tarlata di mia nonna
che dalla prima, sola sala illuminata della sua infanzia
si trascinò fino alla penombra della sua ultima camera affittata:
ormai buona a contenere niente senza guastarlo per sempre,
ligia e fedele da sempre, come un'indurita governante, come un curvo attendente,
memoria del ricordo di ogni tempo che fu diverso da questo,
un tempo in cui qualcuno di noi fu qualcuno, in cui la vita passò ma si trattenne poco:
quanto bastò per vederci esistere, per non doverla più dimenticare.
Ma a cosa servono, questi ricordi?
Dovevamo saperlo, forse, che niente può essere fatto
ma che tutto si fa per non lasciarsi più cambiare.
Dovevamo saperlo, e forse un giorno, un'ora  l'abbiamo immaginato
ma poi non l'abbiamo mai ricordato.

Alle ombre dei ricordi

22.10.11

AL DOTT. DESTOUCHES

Uno scoramento trafelato 
- dovuto direi, a poter ancora nutrire
quel Suo sdegno nato stremato - 
per la mesta quaresima dei miei giorni
che precede la magra processione dei talenti
sporti, avvolti come tremanti consorti,
sull'abisso di quel mare
che da sempre ci divide, placido e solenne.
Cui è seguito, misterioso, 
un gagliardo richiamo di bianca pagina
lungo cui la penna s'affretta fedele
al fianco di questa mia pena d'anima
della vita nata avida 
quanto del vivere, ahimé, pavida.

21.10.11

SANTI SUBITO

Giovani martiri,
mutilati del vostro futuro...
Quel futuro fondato da vecchi
che non lo seppero più abbandonare.
Giovani nomadi,
esiliati ai margini dell'unica Storia
che in ogni tempo voleste cercare:
la Storia Borghese, scherno isterico
a quel tragico di una vita 
come la vostra, ancora giovane e già finita. 

20.10.11

L'ELEGANZA DEL MALE

Raccomandati, ammanicati, sodomizzati...
quelli a lungo insospettabili, quelli sin da principio annunziati:
la mia ostentata indifferenza 
stentata come estremo riparo all'impietosa evidenza
che troppi, in voi, farebbero lo stesso. 
Troppi per filosofare d'indignate epurazioni,  
purgarvi a dialettica culturale, rivoluzione mondiale, evangelismo sociale.
Ma troppi anche solo per tollerare 
quel fetore sversato dal vostro mondo in putrefazione:
un mondo che instancabili narrate con altero fascino dottorale
di chi ormai è intimo del suo più elegante male. 

19.10.11

COOLIES

Nulla di più implacabile, necessario, naturale:
la gialla fame ci divorerà.
Immune ad ogni isterica filosofia,
magra d'ogni bianca ipocrisia,
della nostra sazia, inerme crudeltà
rivendica ormai la legittima eredità.
S'affretti a morire, chi libero voglia andare!

18.10.11

DUE STRADE

"Due strade trovai nel bosco e io scelsi quella meno battuta."

Nessuno di noi ha scelto alcunché. 
I più dotti o scaltri avranno forse scelto di non scegliere, 
i più ignorano d'istinto i tormenti della libertà.
Ma nati in altri tempi, luoghi, vite, costretti o accorsi alla vita
su gambe con cui percorrerle e non sole braccia con cui lastricarle
- passo a passo, giorno per giorno
due strade ben presto avrebbero reciso la maestra.
La strada lungo cui il patibolo quotidiano
è del corpo prima che della mente, per mano del lavoro manuale.
La strada lungo cui l'ergastolo quotidiano
è della mente prima che del corpo, per mano del lavoro concettuale.
Un grigio, invernale giardino d'acclimatazione marxiana
che i suoi burocrati archivieranno sotto alienazione.
Una verde, estiva riserva di caccia freudiana
che i suoi analisti insigniranno del titolo di depressione.


17.10.11

EDIPI E MADONNE
 

Chiamateli pure, ossequiosamente, seni.
Bucolicamente, mammelle.
Finanche, con il vanto del proprio cinismo
degno d'un fante della Grande Guerra, borracce.
Ma non tette, ve lo proibisco!
Disperando che imploriate per tempo
la legge morale, questa sconosciuta persino in voi,
che giunga lei a censurare il vostro analfabetismo
prima che sciupiate l'ennesima occasione

di capire qualcosa di ciò che vi spinge in vita: l'ossessione.
Ossessione, soltanto quella!
L'ossessione di quel petto gonfio
che preme nei nostri desideri o in ciò che resta, i pensieri,
come tra le nostre gambe, le nostre mascelle, le nostre budella.

Noi che troppo spesso, nello scorrer vano dell'esistenza,
persa nella ricerca dei suoi sensi più inutili che ineffabili,
ignoriamo quale dono e che condanna, Olimpo e S. Elena sia insieme
per lei, ogni nostra madonna, quella vocazione a riempirci e ancora svuotarci,
dal nostro primo pianto disperato 

all'ultimo, della stessa dignità di disperare ormai svuotato.
Quale vergogna, fierezza, onnipresenza familiare e insieme estranea 
è in ciò che voi non sapreste che pesare, palpare, maledire, adorare... 
come tette, nient'altro, ricordare.

14.10.11

ROMA

Se non più senso, c'è forse ancora consolazione
che possa cingere insieme al suo spietato, indifferente orrore:
è quella quiete stremata da morte di binario, arrivo a destinazione,
una tregua concessa alla febbre d'ogni negato altrove.

12.10.11

L'OSTINAZIONE DI UN NON AMORE

Non è raro, qui, sentire
e strette alla maniera del sud:
non più raro, per me,
che concedermi di pensare a te.
Indugiare per pochi minuti
tra quei pochi giorni
che l'un l'altra ci siamo concessi.
Ti ho amata, forse, un giorno.
O forse un giorno intero non è scampato
all'incedere lento, solenne di quell'inquietudine
da cui presto o tardi lasciarsi spingere
o trascinare altrove.
Ragionando, potrei affermare senza smentite
che quello non potè dirsi amare.
Ma, insieme, mi chiedo cosa ci fosse in quel breve giorno,
in quelle sue lunghe ore di consapevole illusione
che sopravvissuto agli anni, agli altri, a noi,
a volte ancora mi cammina accanto, sfiorandomi la spalla
senza imbarazzo né insistenza, senza lacrimosi ricatti o invadenza.
Cos'è che dà ad una e appena più stretta
quanto basta per stringere, lieve e chiara come neve,

quel poco di vita nel mio petto assopita.

11.10.11

IL PRANZO DELLA DOMENICA

Tu ricordi quella domenica d'ottobre,
l'inverno tra i capelli soffiava lontano,
come un padre ruvido, d'antico rispetto amato
dalle fiere rocce chiare, dalle fonde cupe onde
al nostro silenzio sussurrava piano.
Tu ricordi, era quasi ieri ma ormai,
forse, nella nostra memoria già mai.
In quel suo tempo sospeso il giorno di festa sembrava insegnare
il sapore della morte che non ci potremo mai raccontare,
e quanto, muto ti chiedevo, di tutte le domeniche, tutti quei pranzi
d'ogni nostra infanzia dolente, ogni adolescenza fremente
a noi manca ora, in noi resta ancora? 
Oggi che libertà è poter vagare 
come padroni di strade vuote, negozi chiusi, motori muti
intuendo quelle famiglie, le loro giovani creature,
chiuse tra severe mura, asciutte finestre, solenni portoni...
raccolte a tacere, là dove non servono parole a rassicurare.
Oggi che libertà è entrare tardi in una pizzeria sempre aperta
come muti, fermi testimoni in quel tragico spettacolo di realtà teatrale
in cui un guappo mancato o represso, sfuggito 
a dove vivere è uccidere o lasciarlo fare,
protetto e nutrito nell'esilio di questa quiete provinciale,
può conservare la propria natura di rabbioso animale
che dimentica il dovere di mordere per dirsi vivo
che afferma il diritto di ringhiare per non dirsi morto,
nel vile istinto che non lesina al beneficio della propria clientela
il diletto di un ambulante spinto in petto, uno straniero insultato in dialetto.
Ed è qui quella vita tanto attesa, quella libertà tanto difesa:
nei nostri occhi liberi di guardare, il cuore libero di patire, le mani libere di tremare.
Oggi che tutta la nostra indignazione 
ha la forza del solo pasto che senza fame
lasciammo muti, da pagare, su quel bancone.

Tu ricordi, non dimenticare.


Alla pizzeria Don Miguel di Teramo
ed a tutti i veri maestri,
quelli che non sanno né vogliono esserlo

7.10.11

OCCUPATI

"...Ma adesso è tardi, adesso torno al lavoro." 

Erano i miei amici, allora.
No, mi sto mentendo, ancora:
erano i soli che avevo trovati
- altri non avevo davvero cercati -
ma amici, quello non eravam mai stati:
troppo simili tra loro 
quegli sguardi alla mia diversità chinati.
 
Erano tutti occupati, ora.
Erano riusciti a trovare lavoro,
riusciti a trovare qualcuno o qualcosa,
un padrone o una condizione,
che vivesse la loro vita, che decidesse per loro.
 
Al riparo, finalmente, dalle scelte:
tolte alle loro mani gioie e miserie
così fragili, così taglienti da stringere o scacciare.
Il mondo, troppo reale, una cosa ormai 
di cui tornare a non doversi occupare:
una nuova e definitiva infanzia li aveva raccolti
dalle strade seducenti e desolate 
del loro giorno di giovinezza, 
tra eroiche parole, gesti teatrali
che tutto o niente ripetevano, senza esitare, 
doveva, dovevano quel giorno cambiare.
 
Un nuovo grembo li avrebbe accolti 
finché, vivi, non fossero morti.
Ma il parlare, era un richiamo 
che non avrebbero saputo far tacere, vizio 
da cui non si sarebbero lasciati abbandonare.
Certi che la loro eloquenza, sola, avrebbe potuto rievocare
quello che oggi agiati, rispettabili, decorosi scampati
ai sé che non sarebbero mai stati, 
giocarono, quel giorno, a desiderare.


6.10.11

LUPI NERI

Se non temessi di finire 
per doverli pure risarcire,
direi volentieri anche la mia 
su quell'italoamericana consorteria 
che rimetterei alle zanne di Gubbio
oltre ogni ragionevole dubbio.

All'innocenza

5.10.11

FERIA INFINITA

Con quanto affanno la gente nutre, giudiziosa,
la morbosità altrui, precisando di lavorare, lei,
di mantenersi, grazie a Dio, estranea
alla turba dei dannati della crisi:
gli inoccupati, i cassintegrati, gli sfaticati,
i figli reietti e dunque ingrati
di questo mondo inspiegabile
che, d'un tratto, s'è fatto ingiusto, irriconoscibile.
Forse anche tu, fino a ieri,
fino alle ultime ferie pagate, sin dalle prime rate firmate,
eri tra tutti quei socialmente utili, 
tutti quei ligi nel ribattere a tono
in una recita ormai consueta di fierezza ed umiltà sgraziate,
i bollettini di guerra televisivi lasciati sullo sfondo,
prima che la realtà del mondo
ti strappasse a quel riparo di pudore collettivo
per denudarti nella tua vergogna individuale.
Perchè ormai devi sentirlo, se non capirlo:
nella disoccupazione, nel dolore
non c'è noi ma io: solo, senza un dove.
Emarginazione di ogni dannazione.
Avrei voluto conoscerti, o solo guardarti:
non saperti dalle parole altrui,
tra i saporiti sottintesi dei tuoi compaesani,
gli eterni conoscenti, gli amici sfuggenti.
Avrei voluto provare a leggere
tra le rughe di giovane vecchia, la tua magrezza mortale:
dono di quel benessere sognato, furto di questa miseria reale.
Una magrezza che questa parte di mondo
crede contrappasso della sua stessa opulenza,
non vede resa del corpo alla condanna
di una vita senza più anima.
Avrei voluto poter fissarti, saper rischiare
di comprendere senza mai capire
“i tuoi occhi come dati statistici”:
senza mai capire cosa fa ad un viso, ad una vita
questa vita che troppi hanno voluto, altrettanti subito.
Ora che anche per te tornano le ferie,
riposo meritato da una fatica ormai svanita,
ora che statistiche titubanti, rissose non ti difendono,
non nutrono la tua dignità né il tuo ventre d'ossa
tra le perentorie grigliate, le fiere bevute
di chi lustra nuove millecento, fiammanti coscienze.
E delle tue guance solcate, le tue orbite fonde, il tuo corpo ormai estraneo
nessuno mai che abbia fatto parola, se non poi, in terza persona.
Nessuno fermo davanti a te, a testimoniare,
a riconoscere in te cosa lascia ciò che passa per non tornare:
soltanto l'ozioso male di chi solo in morte dovrà tacere,
ormai tardi perché il silenzio impari ad ascoltare;
chi nel prossimo, come te, qualcosa, mai qualcuno continuerà a cercare.
Qualcosa da compatire, qualcosa da maledire,
qualcosa che ci chiama per nome, lì da un dove 
noi tutti non vorremmo mai finire.

4.10.11

PIEGHE SOCIALI

“Purtroppo, non so come, siete in tanti...”


Perché mai avvelenarmi su di voi?
Solo per non imbattermi in qualche reale autore
in cui non potermi che specchiare?
O anche per ricordare chi siete, e quanti:
custodia di ciò che ho diritto di non essere,
memoria di ciò che ho dovere di non diventare.
Voi, come furtivi intrusi pensieri
tenacemente avvinti a quanto più sa amareggiare,
avidi parassiti della mia inferma convalescenza mentale.
Voi, ben altro dall'offensiva volgarità
che guida con mano ferma, secca d'avidità
la vostra prudenza formale, pretestuosità concettuale,
vigliacco ermetismo d'una lascivia pornografoide.
Voi, che dissimulate in un partecipe, quasi complice
discorso sui giovani, il sapiente veleno dell'indottrinamento;
che ne lusingate l'edonismo celebrandone gesta come d'eroi,
per poter muovere come pupi, poi

tutti coloro che sono giovani, che giovani non sono mai stati,
che giovani si ostinano a credersi, patetici o disperati.
Voi, rivolti all'adolescenza peggiore,
quella che non vorrebbe crescere perché
 non sa accettare
ciò che voi ormai possedete, forse solo per intuizione:
l'intollerabile evidenza di quanto si consumi, fatale, 

in quell'unica stagione che per rimpianto di ciò che è mancato
più che nostalgia di ciò che è stato, non vorremmo lasciar andare.
Come orfani che provino a conservare
sino alla morte la propria infanzia, candida quanto la speranza
di conoscere il proprio padre.
Voi, ingrassati da quell'adolescenza
che in troppi, gracili, non seppero che lasciar passare
ammalandosi troppo presto di malinconia del contemplare.
Una stagione perduta invano
per i troppi che, incoscienti della spaventosa solitudine
che fa adulta questa loro età,
occhi chiusi per guardarsi dentro, petti muti per voltarsi indietro,
mai seppero osare, allora, mai potrebbero intuire, ora,
in ciò che ieri non sono stati, ciò che oggi sono diventati.

Ai Moccia, Melissa P., Muccino
migliori,
come ai Bertolucci, Baustelle
deteriori.