5.10.11

FERIA INFINITA

Con quanto affanno la gente nutre, giudiziosa,
la morbosità altrui, precisando di lavorare, lei,
di mantenersi, grazie a Dio, estranea
alla turba dei dannati della crisi:
gli inoccupati, i cassintegrati, gli sfaticati,
i figli reietti e dunque ingrati
di questo mondo inspiegabile
che, d'un tratto, s'è fatto ingiusto, irriconoscibile.
Forse anche tu, fino a ieri,
fino alle ultime ferie pagate, sin dalle prime rate firmate,
eri tra tutti quei socialmente utili, 
tutti quei ligi nel ribattere a tono
in una recita ormai consueta di fierezza ed umiltà sgraziate,
i bollettini di guerra televisivi lasciati sullo sfondo,
prima che la realtà del mondo
ti strappasse a quel riparo di pudore collettivo
per denudarti nella tua vergogna individuale.
Perchè ormai devi sentirlo, se non capirlo:
nella disoccupazione, nel dolore
non c'è noi ma io: solo, senza un dove.
Emarginazione di ogni dannazione.
Avrei voluto conoscerti, o solo guardarti:
non saperti dalle parole altrui,
tra i saporiti sottintesi dei tuoi compaesani,
gli eterni conoscenti, gli amici sfuggenti.
Avrei voluto provare a leggere
tra le rughe di giovane vecchia, la tua magrezza mortale:
dono di quel benessere sognato, furto di questa miseria reale.
Una magrezza che questa parte di mondo
crede contrappasso della sua stessa opulenza,
non vede resa del corpo alla condanna
di una vita senza più anima.
Avrei voluto poter fissarti, saper rischiare
di comprendere senza mai capire
“i tuoi occhi come dati statistici”:
senza mai capire cosa fa ad un viso, ad una vita
questa vita che troppi hanno voluto, altrettanti subito.
Ora che anche per te tornano le ferie,
riposo meritato da una fatica ormai svanita,
ora che statistiche titubanti, rissose non ti difendono,
non nutrono la tua dignità né il tuo ventre d'ossa
tra le perentorie grigliate, le fiere bevute
di chi lustra nuove millecento, fiammanti coscienze.
E delle tue guance solcate, le tue orbite fonde, il tuo corpo ormai estraneo
nessuno mai che abbia fatto parola, se non poi, in terza persona.
Nessuno fermo davanti a te, a testimoniare,
a riconoscere in te cosa lascia ciò che passa per non tornare:
soltanto l'ozioso male di chi solo in morte dovrà tacere,
ormai tardi perché il silenzio impari ad ascoltare;
chi nel prossimo, come te, qualcosa, mai qualcuno continuerà a cercare.
Qualcosa da compatire, qualcosa da maledire,
qualcosa che ci chiama per nome, lì da un dove 
noi tutti non vorremmo mai finire.

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