30.6.13

TU NON SEI PIU'


Se dovessi definire una persona media, penserei a qualcuno che si premuri costantemente di essere ben amalgamato con l'humus sociale di appartenenza, o di anelata emancipazione. Dunque qualcuno che non tragga gratificazione né frustrazione dagli eventi e dalla qualità complessiva della sua vita in quanto tali, ma sempre previa commisurazione di questi alle vite degli altri, costituenti il suo humus di riferimento. Da qui la curiosità morbosa, come la critica livorosa, riservate al prossimo, e, di contro, la più larga indulgenza concessa a sé stessi. Sarebbe impossibile, per un individuo singolo che ancora possa dirsi tale, tentare di comunicare con qualcuno di tali individui medi, per la semplice ragione che il primo non si ritroverebbe di fronte un interlocutore, bensì un semplice portavoce di pensieri o sentimenti comuni, il rappresentante e garante di un io collettivo: ambasciator che non porterebbe pena, come non porterebbe più sé stesso, dato che ad un sé egli ha ormai rinunciato, facendosi noi, in cambio della rassicurazione e della garanzia di non restar più solo  – o, quantomeno, di non sentirsi più tale, finché a quell'humus funzionale.

Nel passato anche io ho tentato di essere così, ma fortunatamente non mi è riuscito. Dico fortunatamente perché adesso non lo vorrei più; dico fortunatamente perché vedere una realtà dal di dentro – di sé stessi, in primis – trovo sia l'unico modo di raccontarla, denunciarla, e dunque combatterla. Così io ne scrivo, cercando al contempo di leggere il meno possibile quanto scritto da altri, qualora senta che in me potrebbe riaffiorare ciò che allora tentai di diventare.

29.6.13

Stati calmi e sottomessi

Ad oggi, ogni contratto sociale non presuppone alcun superamento, solo una regolamentazione dei rapporti di forza fondativi dello stato di natura. 

Osservo questo cane non mio, questo animale che tanto mi è caro, posto tra altri cani – in fondo sono io l’artefice di questa sua forzata “socializzazione”, dovrei ricordarlo anche alla mia ansia montante! Osservo come con alcuni dei suoi simili l’empatia sia immediata e, apparentemente, incondizionata (finché, mi suggerisce il mio pessimismo positivista, non dovessero spartirsi un riparo o del nutrimento, o anche solo l’attenzione di un padrone); con altri è istinto all’aggressione probabilmente fatale (un fenomeno dalla dinamica meno reciproca di quanto un incondizionato animalismo potrebbe far sperare: in questo, trovo che i cani si dimostrino animali non più nobili né ragionevoli degli esseri umani); con altri ancora c’è un iniziale avvicinamento guardingo, affidato al notorio olfatto più dotato del nostro, cui segue un preoccupante ringhiare e scoprirsi di denti. Trovo snervante, nella circostanza, la paternalistica saccenza con cui le altre persone commentano di solito il mio seguire gli eventi tenendomi il più possibile pronto ad intervenire, nel caso degenerino. Ritrovo tutta la stupidità delle convinzioni più radicate e, in fondo, rassicuranti, nel loro spiegarmi – assolutamente gratuito e non richiesto – che bisogna lasciare che i cani se la vedano tra loro, in simili casi: basta che stabiliscano una gerarchia, e che chi è destinato a stare sotto impari presto, a proprie spese. Di solito il silenzio è la massima forma di opportunistica cortesia che riesco a riservar loro, mentre i ricordi come al solito riaffiorano, eclissando per intensità gli stati d’animo del presente… ripenso così a quei campi estivi parrocchiali dove i miei continuavamo a spedirmi fiduciosi, nonostante lì subissi vessazioni, fisiche e verbali, largamente dimostrate. Ma ripenso anche alla scuola, alla pratica sportiva, alla vita in famiglia, alla “buona educazione” tutta imperniata sulla progressiva acquisizione di consapevolezza circa il proprio ruolo e quello degli altri. Ripenso alle varie forme di gerarchia insite o istituite nel mondo animale, e continuo a provare, se non amore, più pietà per un cane che per un uomo.

28.6.13

LODE AL LODO


Questi qui che fanno tanto gli indignati militanti e poi pubblicano per Berlusconi, io in fondo li compatisco pure… 
Comprendendo – o solo intuendo, sospettando – che nulla di loro resterà da morti, essi cercano di arraffare quanto più possibile finché in vita. 
E cosa seduce le folle, cosa apre le cosce meglio di una maschera ben indossata?

27.6.13

VITE DI UN AMORE


Dunque l'amore durerebbe tre anni, Monsieur Beigbeder? Forse per lei, ma per altri molto meno: ecco perché questi possono decidere di farlo durare quanto credono e necessitano (… entrambi gli amanti, si spera!). Tuttavia, se anche l'amore durasse tre anni, l'attrazione irresistibile, quella che non può disgiungersi dal terrore ossessivo della perdita, dell'abbandono, si limiterebbe a tre mesi: quando le fantasie di altri corpi iniziano a travalicare i limiti della possibilità per farsi necessità, puntualmente intrisa di un inutile ed impotente senso di colpa. Il progressivo esaurimento del desiderio verso l'altro, stabile ed unico interlocutore erotico, avrà poi a che fare piuttosto con qualcosa che ricorda l'acuta indigestione per un cibo di cui ci si sia scoperti ghiotti, piuttosto che la cronica nausea per un liquore che ci abbia casualmente inebriato, per poi ubriacarcene ferocemente. Tuttavia, benché avvertita in noi quest'elementare verità, preferiamo continuare a rifugiarci nella consuetudine della monogamia: mortificando così i nostri corpi ma pure – forse neanche sospettandolo – le nostre anime; condannando quella rara affettività che ci è concessa, ad un'esistenza assai più breve ed angusta di quella che avrebbe potuto vivere; ed impedendole, così, non certo di lenire la nostra solitudine esistenziale, ma perlomeno di consolare quella paura vitale.
In fondo c'è molta meno ingiustizia e violenza – il che svuota d'ogni residua rilevanza il concetto labile di naturalezza – nell'affettività omosessuale: lì possono incontrarsi, infatti, creature mosse da bisogni assai meno divergenti di quelli che contrappongo un uomo ed una donna reciprocamente attratti.  

26.6.13

IL SENSO DI PUDORE

Donami una vacanza di pietra
senza memoria concreta


R. mi diceva
di chiamarsi Ros, lo preferiva:
per sembrare meno figlia, meno terrona;
per non ricordare, della sua terra,
solo quella nelle unghie del padre;
solo l'antico, devoto ossequio
all’istruzione di sua madre.

R. mi diceva
che fu la mia barba ad amare per prima:
scoprendosi paziente
nel vederla crescere, mattina dopo mattina;
cercandola dal suo usuale osservatorio d’angolo
come un padre, fuori da scuola, la sua bambina:
una barba tanto armonica nel viso
da donarle pace rara, quanto un mio sorriso.

R. mi diceva
in fondo a quegli sguardi
le parole che, lontana,
dentro ai libri poi lasciava;
con l’inesperienza necessaria,
avrebbe detto qualcuno,
per non ricordare, non ancora,
tutto ciò di cui doversi vergognare;
cercando i suoi pensieri
negli stessi cieli con cui piangeva:
cieli neri come occhi ancora vivi e veri,
che gli anni avevano baciato
nell’età che non avrebbe tradito.

R. mi diceva
di non riuscire a farsi lesbica:
l’idea di cazzo la violentava, 
ma quell’umore fondo di fica…
più del mare l’inquietava.

R. mi diceva
di pura nausea per i maschi,
tra pusher assillanti
e fidanzati scostanti:
ma s’era fatta tutta l’astinenza,
riguadagnato il suo starne senza;
ora il naso le serviva a respirare,
e ‘trascendere’ tre volte al giorno
nel duro cammino al plesso solare.
Non più la svampita
matricoletta trasferita
su strade d’alba feroce:
strascinarsi lento e pesante,
degno del più sadiano Dante,
sino ai confini del tramonto,
al risveglio in anonimi sudari…
Fuori già, ancora, il buio,
un tg dal tinello comune,
l'ano urlante da sciacquare,
in specchi opachi ritrovare
quel disprezzo sufficiente
per continuare ad ammazzarsi
senza mai sapere se morire.

R. mi diceva
che il dolore lo conosceva,
non era quello a spaventarla…
ma un attimo prima si fermava!
Mentre la madre,
che per qualcuno era esistita,
che doveva averla tanto amata
da donargliela, quella sua vita…
povera mamma, ripeteva,
non s'è mai chiesta perché vivesse
e io non chiedo perché sia morta.

R. mi diceva
che il suo analista conveniva:
io ero stato un incontro positivo.
Forse per questo doveva partire.
No, non lasciarmi!
Ma solo andarsene:
troppe macerie di vecchia vita
per costruirne lì una nuova.
‘Che vuol dire quando?
Anche domani, se potessi!’
Una città nuova, grande, dura.
Una lingua da imparare,
le sue forze sole su cui,
finalmente, dover contare.
Ma mi voleva vicino,
in quel tempo che le restava,
perché la amavo, lo sentiva.
… E poi qualche indirizzo, magari!
Non avevo provato l’emigrazione
anch’io nella perfida Albione?
Le ho detto arrivederci,
mi ha risposto sì, ci rivedremo
– aggiungendo di capire:
immaginava cosa sentissi
e il mio dolore, lei, lo rispettava.

Due giorni e l’ho risentita:
non sarebbe più partita.
Aveva temuto quelle emozioni,
quelle cercate tutta la vita,
e, cazzo, proprio adesso…
ma no, non sarebbe fuggita!
Ora potevamo stare insieme.
Andiamo a farci un cocktail
preparato come si deve:
offro io… vabbè, mio padre!
Le ho detto addio,
mi ha sibilato di non stupirsi.
Né ci mise molto a sparire,
dimenticare quell'ossessione allucinante:
una telefonata sussurrata, una lettera urlata…
lì, dal fondo nero delle sue notti in bianco.
Mentre io difendevo la coscienza
dal ritorno dei misurati deliri
di quel corpo troppo vuoto
per non echeggiare in sua assenza.

Troppo perché potessi solo pensare
di non mandarla, non subito, a cacare;
troppo perché potessi gratificare
il mio tempismo elegante e scrupoloso,
forte d'una robusta erezione
nell'onanistica viva visione
del suo addome asciutto e nodoso,
di quella pelle gotica quasi trasparente,
di quelle mammelle da madre
su di un petto, un corpo intero, da figlia eterna.
In quelle magre notti di giugno,
toccarsi le punture con dita quasi fiere,
specchiarsi nella finestra in posture da gonzo movie
– immaginando che da fuori qualcuno ti vedesse,
chiappe all'aria, timida e avida a succhiare,
per menarselo con furia di punizione,
ansimando 'Troia…' sino a venire senza godere –
Quelle tue sole tette dolenti da scopare,
perché lui non l’avevi ancora lasciato,
perché mestruata non lo volevi fare…
finendo per saziare, in un istante d’onnipotenza,
la voglia cupa che ti affamava l'esistenza.

Torno lì, oggi.
I ricordi stretti, tesi a frugare
tra i resti di ieri ciò che rimane:
sul tuo mento gocce chiare
quanto i tuoi occhi, a ringraziare.
Oggi che la solitudine della mia pelle
persino da te si lascerebbe lenire:
lei che potrebbe scordare
chi muove quelle dita
che solcarono questa vita
spoglia d’odio, nel calore animale
cui ogni uomo vorrebbe tornare.


24.6.13

Presidente, questo è per te!

Beh, ci saranno pure 'sto spread, la recessione, il lavoro che manca o che - come la fica - finisce sempre agli altri, ma... MENO MALE CHE ANCHE SILVIO C'E'!
(E, passando a cose più degne, meno male che c'è pure il buon Beppe in Sicilia; nonché il prof. Bagnai a quello Zuccone lì...)

23.6.13

SARA’ UNA RISATA CHE CI SEPPELLIRA’?


“Tutto ormai si svolge come se l’espressione diretta di un sentimento, di una emozione, di una idea sia diventata impossibile, perché troppo volgare. Tutto deve passare attraverso il filtro deformante dell’ironia e del distacco.” 

Da una parte questo, dall’altra la sovraesposizione speculativa dei sentimenti – meglio se affermabili per brutale contrappunto come gioia e dolore – che rende grottescamente iperreale ciò che non avrebbe più senso definire naturale.

22.6.13

E QUINDI USCIMMO A RIVEDER LE STELLE

Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico
che anno per anno indietreggia davanti a noi…


Era allora
la mia prima giovinezza:
nata forse tardi,
certo vissuta troppo.
Anch'io, talvolta ebbro
di quegli anni liberalizzati,
lasciai avvicendare, come molti,
infatuazioni ragionevoli,
per intensità e natura dell'oggetto,
rivelatesi comunque folli.
Tuttavia, forse complice
un conformismo poco narciso,
non seppi compiacermi
né fortificarmi, nella disfatta:
solo espiarne evanescenti colpe,
capolino ed epilogo
d'ogni volontà di potenza.

Il solo sincero afflato metafisico,
forse non degno di panteismi germanici,
alberga ancora, con rara dignità,
tra tali memorie coatte di quella comune età.

Quando, volendo concedermi
il pensiero, non già reciproco,
d'una lei tra le mie elette,
io attendevo notti limpide
ove confidare in bui sereni
come le rese di quegli anni.
Per cercarvi una stella
da immaginar lucente
sopra la casa, nella stanza
in cui ella, in quel momento,
condividesse i miei pensieri
pur volgendoli chissà dove;
e mossa da simili emozioni,
omologhe assurde ragioni,
a quella stella dedicasse
la vanità dei suoi sguardi
più amari, indifesi, lontani…
i nostri sguardi più umani.

E, seppur in fredda luce
a distanza di vite intere dalla mia,
trovar la stessa consolazione
che teneva vivo, in vita,
ciò che allora io ero, o credevo.

Mentre la luce
che poetai morente
soltanto per donarle speranza,
sarebbe rimasta lì, a custodirla:
sia che lei fosse ignara,
fredda e, infine, assente,
la stella lì sarebbe restata,
più fedele della dolente devozione
d'ogni mio giuramento interiore.


A te:
non io, non già, ch'io speri,
al pensier ti ricorro

21.6.13

LUOGHI COMUNI


Il razzismo, il classismo,
tutta l'italica intolleranza
rimane più verbale che fisica:
ci si insulta sui mezzi pubblici
per non pestarsi nei pubblici spazi.

Mortalmente opulenti,
noi qui continuiamo
a far parole più che fatti,
tremando soltanto in pochi
al pensiero di cosa sia peggio;
mantenendoci equidistanti
dall'odio come dalla ricchezza
con cui, nelle risacche d'imperialismo,
pure nazioni educano i loro popoli stranieri.

20.6.13

NEGLI ISTINTI ESTINTI


Questo giugno lento
quanto il suo soffocamento,
mi riporta alla prima estate
dominata da necessità sessuali.

Quando credevo,
tredicenne tremante
come un timorato pedofilo,
di poter avvicinare ragazzine
o giovani donne vitali,
madide di umori primari,
lungo marciapiedi affollati
di urgenze mai condivise,
né da me comprese.

E tutto il mio candore –
quella purezza senza più valore –
s'annidava nella suggestione
di un richiamo da quei corpi
a me apparsi d'improvviso nudi;
come se liberarsi delle vesti
fosse spogliarsi anche dei veti
che mantenevano estranei,
stridenti i nostri impulsi…

Noi razza dispersa,
destinata a non ritrovarsi
che nella cattività
precedente ogni estinzione.

19.6.13

IL DEMONE DELLE PICCOLE COSE


Onde restare il più possibile indenni dal loro influsso, bisogna avere rispetto degli oggetti, sia quelli che funzionano solo quando sono loro a deciderlo sia, a fortiori, quelli nei quali crediamo di essere stati noi ad inciampare, cozzare, imbatterci fastidiosamente per fretta o distrazione, ma che in realtà sono i veri artefici di tali avvenimenti apparentemente casuali ed irrilevanti; in quanto gli oggetti – tutti gli oggetti – sfruttano al meglio la loro immobilità per trattenerci lì dove noi pretendiamo, arroganti, di soffermarci quanto basti ad usarli. Silenziosi e potenti, discreti e minacciosi, gli oggetti sanno assumere anche sembianze umane: uscieri, portinai, bidelli, impiegati di uffici aperti al pubblico, portantini come infermieri; poi ancora molti anziani, moltissimi insegnanti, e gli altri innumerevoli ammennicoli come loro, tutti i soprammobili semiviventi di questa società dei consumi interpersonali. Naturalmente invidiosi, dal loro punto d’osservazione – posizione angusta ma quanto mai privilegiata – di qualsiasi forma di vita che gli appaia minimamente goduta da chi passa loro accanto, essi tentano istintivamente d’intralciarne il percorso – o almeno ritardarlo, per aiutare vecchiaia e morte a raggiungerli più tempestivamente. Come pavidi omertosi in terra di mafia o spavaldi interventisti in tempo di guerra, questi non lavorano per conto della disgrazia ma le rendono comunque un soddisfacente servizio.

18.6.13

DALLA SENSUALITA' DELLE VITE DISPERATE ALLA BANALITA' DELLE VITE RINUNCIATE


Il segreto del culto – pur fiacco o prudente, come ormai ogni atto interno – riservato ad autori ripiegati su di sé, prima ancora che di sé colmi, sta in quella vecchia tendenza della nostra razza all’identificazione – ossia una emulazione puramente ideale – ut supra già nelle riflessioni di Freud e, per il livore di Heidegger, di Aristotele. Di nuovo, in questa pallida epoca post-tutto, c’è che agli Achille ed ai Werther si sono sostituiti i frustrati laureati sotto litio di un Michel Houellebecq. Ragione maestra per cui amo quest’ultimo, proprio come un padre: un sentimento rassicurante ma, insieme, impegnativo, perché può prescindere dall’ammirata stima ma non esime dal rispetto per l’onestà di una vita intera, o di un pensiero solo. 

17.6.13

COITI MENTALI E SEGHE INTERROTTE
 
Sono ben rare le donne che non sono essenzialmente vacche o sguattere – ma allora si tratta di streghe o di fate…



Ricordo un negato bacio d'addio, cui si preferì la domanda retorica 'Ma tanto... a che serve?' 
Già, a che serviva? Me lo chiedo solo adesso che il pensiero ha fugato ogni illusione dell'azione. Solo adesso che, pur volendo, non saprei dove indirizzare l'oziosità di questa risposta; o a chi, tra quei volti ormai troppo simili, nell'indulgenza figurativa della memoria. Serviva a conoscermi, quanto basta da capire perché certe donne non le avrei mai conosciute: perché le capivo, dandolo anche a vedere. Ed ho conosciuto donne che amavano, che godevano, che gioivano, finanche donne che s'illudevano, soltanto con la testa: donne attratte – innamorate o eccitate che fossero – non certo dalla mia persona ma dall'idea, dalla rappresentazione di me che si erano affannate ad elaborare vedendomi. Diversamente da molti degli uomini incontrati, che in realtà erano soltanto dei ragazzi, quelle che io ho conosciuto erano delle donne, persone adulte e pertanto cerebrali (spesso pure ragionevoli, potrei aggiungere), ma persone che usavano la testa (certo, non sempre la loro) per tanti di quegli impieghi alternativi, da esaurire le migliori energie che avrebbero potuto destinare al pensiero. Giungo a questa conclusione perché le rappresentazioni di me che quelle elaborarono, finirono per rivelarsi tutte palesemente improbabili, oltre che omologate: ciò a prescindere dal mio personale contributo alle loro illusioni (e confido che, a ricordarsi di me, qualcuna confermerebbe). Credo che pochi siano più distanti del sottoscritto dal profilo, anche psicologico, di quell'irresistibile, vituperato Don Giovanni: tuttavia, ripensando a quelle donne, continuo a trovarne più avvilente l'involontarietà con cui hanno reso penetrabili le loro menti, che l'arrendevolezza che ne ha reso penetrabili le carni.  
Come potrebbe congedarsi un poeta migliore di me, in fondo ho conosciuto poche donne, e mi sono bastate. Ci dev'essere un perché...

16.6.13

COME LETTI ABBANDONATI


La sorte peggiore
di ogni pagina scritta
– diventi essa libro
o resti qualcos'altro –
certo non è mai
il non esser pubblicata;
ed ancor meno
le negate celebrazioni
della critica o del mercato.

La più triste sorte,
per ciascuna di esse,
io credo sia
non venir che scorsa
una volta comperata
(ossia fatta prigioniera
della effimera sicumera
che dona la proprietà privata).

Oppure, fatalmente,
restare dimenticata
benché una volta amata
… e forse anche compresa.

15.6.13

BAMBINI DEFINITIVI

Il cane è una sorta di bambino definitivo, più docile e più dolce, un bambino che non arriverà all'età della ragione.

Non importa nulla che sia grato, ciò che conta è che, quando si fa qualcosa per lui, un cane è appagato; mentre un bambino al massimo è placato. 
Suppongo che, per chi almeno nelle intenzioni abbia provato ad essere un buon genitore, lo sguardo giudicante di quel piccolo inquisitore debba farsi presto insostenibile.
Nella ritualità civile, un cane ci costringe all'indifferenza o al sincero trasporto: non consentendo calore di circostanza, risulta assai più imbarazzante di un infante.


Evidenza discreta, quotidiana,
dell'abbandono di gioventù,
è apparsa nel mio sorridere,
non più amaro, della speranza
in caldi ripari dal dio destino
– collettivo, di solitudine,
o individuale, d'accettazione.

E questo cauto mio indugiare
del desiderio riservato a te, un cane,
che io credo incarni il bene
assoluto, sciolto d'ogni egoismo.
Per poi chiedermi, egoista,
potrò scordare, se non accettare,
il mio esserne umanamente indegno?

Questo sentire di appartenersi
eppur sapere che non mi appartieni,
mai scordare che non sei il mio cane,
è un male ingiusto poiché imposto,
ma in sé non reca vano dolore.
Stringendolo, purifica il petto
da quel bisogno di possesso
che avvelena quanto di buono
può nascere in ogni uomo,
evolutosi dagli altri animali
in mere chimere razionali.



A Milli,
senso vivente

14.6.13

IL VUOTO CHE ACCOGLIE IL BOATO

Su un calcio di rigore un grande scrittore
ci potrebbe scrivere un racconto


Lui aveva sempre creduto – e forse anche saputo – che per eseguire un tiro decisivo che finisca per rivelarsi davvero tale, mai e poi mai si dovrebbe pensare ad esso per quello che sta a rappresentare: un tiro decisivo, appunto. Già, ma allora a che cosa si dovrebbe piuttosto pensare? (Sempre ammesso che si debba farlo!)
Questa domanda perfettamente logica, tempestiva, quanto a sua volta decisiva, lo assalì proprio nel momento in cui era da lui che ci si attendeva un tiro decisivo, che per tanti (forse troppi!) occhi fissi su quella sola sfera che iniziava a scottargli tra le mani, sarebbe stato il tiro decisivo.
Quindi a che cosa avrebbe dovuto pensare, lui, nell'atto del suo tiro? Probabilmente non avrebbe trovato una risposta utile tra tutte le possibili e le plausibili; fatto stava che non ebbe neanche il modo di porsi seriamente quella domanda. Ciò non a causa del compito che era chiamato a svolgere nella circostanza; non a causa del ruolo che per un lungo tempo egli aveva sinceramente desiderato ricoprire, ma che solo allora gli sembrava di non volere più, incapace di reggerne il peso (peso della superflua ipocrisia cui si era prestato: lo squilibrio tra le aspettative e la gratificazione di tutti quegli occhi sarebbe rimasto per sempre un colpevole delitto, al di là dei possibili esiti contingenti); e nemmeno a causa della angustia temporale del momento: di fatto, mai quanto in simili frangenti, si può ottenere la prova empirica della teoria secondo cui il tempo è concetto elastico – oltre che relativo – e la rapidità del pensiero sa ben sfruttare tale sua elasticità, in una rappresentazione plastica molto simile a quella del campo gravitazionale terrestre, illustrato come un'armoniosa concavità ondulata in uno di quei programmi televisivi dalle velleità scientifiche.
Dunque no. Il non avere modo di porsi con la dovuta pace mentale quella domanda, non dipese proprio dal fatto che, in vece del pensiero, egli fosse allora chiamato ad obbedire all'azione; profondendovi, quasi consacrandovi, hic et nunc ogni risorsa fisica e mentale… Ma non ci fu modo di porsi la interessante domanda soltanto perché in quell'irrilevante tutto spazio-temporale che lo separava dal punto esatto del campo da gioco e il termine della ideale traiettoria richiesta alla sfera sempre più calda che ancora custodiva tra le sue mani, innumerevoli altre domande finirono per assalirlo, quasi accalcandosi per tormentarlo, come giovani coetanei troppo sicuri di sé per temere una significativa reazione da parte della loro vittima.

Gli fu dunque chiesto – non avrebbe mai saputo dire da chi né perché – se sospettasse il motivo per cui fu adottato quel genere di regola, ossia tiro da fermo come punizione,  nel gioco che fino a quel momento lui aveva praticato per venti anni esatti; e se ravvisasse, inoltre, qualche differenza tra quella regola e le analoghe vigenti in altri celebri sports, accomunabili al suo anche per l'elezione d'idoli più o meno osannati e, proporzionalmente, minacciati da una simbolica crocifissione.

Gli fu chiesto che cosa avrebbe preferito – qualora avesse potuto scegliere sul serio, qualora ne avesse avuto il talento fisico e mentale, oltre che proporzionale coraggio morale – se “realizzare” il tiro (nel senso d'indirizzarlo laddove circa una metà delle altrui aspettative convergeva) così da venire consegnato all'oblio dei suoi seguaci dopo il relativo lasso di tempo plausibile per l'ultima pagana idolatria; oppure se fallirlo, e non sapere quanto lunga sarebbe stata l'attesa da tollerare, ora con una molle indifferenza ora tra incalzanti imprecazioni d'impotenza, prima di poter raggiungere una identica beatitudine, propria d'ogni meritato anonimato che si sia riguadagnato.

Gli fu chiesto – mentre, curiosamente, egli sembrava avere sospeso per un immoto istante il proprio esistere e tutto ciò che gli pulsava attorno feroce quanto rispettosamente cauto per il timore di turbarlo – se sarebbe stato poi meglio avere di fronte a sé un altro essere umano, gravato da speculare, antitetica responsabilità, e dunque anche da una solitudine parimenti incolmabile; o se fosse invece preferibile quella apparente insensibilità che convenzionalmente attribuiamo ad un oggetto – metallo e fibra sintetica, in quel caso – che, se non altro, aveva rilevanti probabilità di sopravvivergli e dunque, benché della consustanziale atarassìa degli oggetti egli non avesse la prova scientifica, avrebbe rappresentato tuttavia una consolazione dall'apprezzabile effetto placebo: medicamentum animi che, nella saggezza popolare, o nella filosofia leopardiana, era riassumibile – per un atleta dalla erudizione superiore alla media – forse nel più fruibile 'mal comune mezzo gaudio' (specie se il male altrui si prospetta più durevole del proprio, avrebbe aggiunto!).

Non si esaurì poi lì la sequenza di fondamentali questioni che proprio quel momento avevano scelto per sfidare la sua capacità di pensiero astratto. Un pensiero che non serve a nulla, proprio come la filosofia, ma che pare rimanere una condizione preliminare irrinunciabile per chiunque voglia acquisire una competenza applicata spendibile sul mercato. Ricordava, a tale riguardo, dei quesiti di logica che erano infine rimasti a separare, frapponendosi con la canagliesca impunità dei dati di fatto, le sue gracili chimere intellettuali dalla robusta perentorietà della burocrazia accademica, nel concedere pari opportunità agli studenti meno abbienti ma meritevoli. Una formula sibillina… Meritevoli nonostante la minore abbienza, o meno abbienti tuttavia ricompensati, dal destino prima e dall'umano consorzio poi, mediante una meritevolezza di cui tutti gli altri, gli abbienti, quand'anche ne fossero stati provvisti, non avrebbero avuto bisogno? Le speculazioni intorno al ma di quella formula fiaccarono, nella distante ma ancora mortificante circostanza, un'ampia parte delle risorse logiche che invece sarebbe stato tenuto a profondere nel test, una valutazione oggettiva ed esatta del suo diritto all'ambizione sociale – nella migliore tradizione di efficienza liberale, si sarebbe potuto ironizzare ex post, forti dell'immunità che dona ogni disillusione!

Ergo, non essendosi esaurita lì la sequenza di interrogativi, gli fu chiesto, come in un montante crescendo musicale, se prima di uscire da casa sua, quella mattina, avesse spento la fiammella che sibilava discreta, come di consueto, sotto alla caffettiera, proprio mentre lui – questo se lo ricordava lucidamente, nella sua inutilità! – indugiava afflitto dinanzi all'ingiusta immagine riflessa del suo cranio pudicamente rasato, causa l'alopecia, ma talmente distante dall'armonia anche cromatica di quel Michael Jordan fluttuante nell'aria, grondante lucentezza di trance agonistica, dalla porta della cameretta in casa dei suoi genitori. Ricordava anche il denso odore della plastica liquida che lo aveva raggiunto al bagno, lungo il claustrofobico corridoio. Un odore che riusciva a materializzare il concetto di tempo nelle astrazioni di Salvador Dalì, avrebbe forse sentenziato, didascalica, la sua prima amata altrove attratta, della scuola superiore! O, in una immagine d'innocente teppismo, come i verdi cestini dei rifiuti in cui depositavano petardi, lui ed altri occasionali complici riluttanti, in serate lunghe quanto gli anni Ottanta dei monastici ritiri, in villaggi montani, per le giovani promesse della magica sfera, elastica e resistente (due virtù che tutti loro s'ostinavano a coltivare di giorno – ed altri pure a pregare di notte – per le loro ancora estranee e misteriose strutture osseo-muscolari).

Quella mattina era a casa sua, dato che l'incontro maledetto (altro che le maledette domeniche d'assalti filmici illustrati nei piani del generale per gioco Al Pacino!), “si giocava in casa”. Quell'incontro, candido più dei piccioni ignari delle camicie leggere nei primi appuntamenti, che avrebbe finito per riservare a lui il tiro dal solo punto d'intersezione delle domande passanti tutte di lì come rette, si disputava infatti nella sua città, ovvero la sua città di residenza.
Insomma, “si giocava in casa”, giusto per ricorrere ad una altra formula compendiativa che, a suo giudizio gratuito e senza gran valore, era tanto infelice quanto, ironicamente, fortunata, come formula (e magari di ciò avevano, lei come lui, da essere grati, a sentire gli altri, meri comprimari!)
Si giocava in casa, ma nel senso figurato ('… In senso figurato, in senso figurato!' – come l'avrebbe sempre fatto scompisciare quella indolente precisazione semiotica del Pozzetto-Gandhi-Mambelli al gaio Massimo Ranieri ne La patata bollente: un raro esempio, per un fiero cinefilo mancato, come lui si piccava d'esser, di pellicola dall'ironia popolare non offensiva dell'intelligenza del popolo… negli ultimi tempi storici in cui questo sopravviveva!).
Eppure la gravità di quell'evento cui al mattino aveva finto di riuscire a prepararsi – mentre la sua moca se la fischiava incurante e inascoltata proprio come Angelo, il bidello, nei corridoi della sua prima scuola dell'obbligo alla obbedienza istituzionale – era gravità troppo opprimente per incombere  soltanto a sette (o massimo otto: non si era ancora lasciato corrompere da modaioli contapassi da polso o da bicipite!) chilometri di distanza dall'unico suo luogo di riposo e rara pace, anche interiore. Rarità – accresciuta dall'imminente  scadenza del contratto di locazione, non rinnovabile per via dei lavori di ristrutturazione vincolanti ex lege – alla quale egli tornava, pavidamente fedele, con quella consuetudine malinconica con cui si ritrova una donna voluta per amore e tenuta per affetto, ogni singola sera. Esclusi i doveri della trasferta (non alibi, nel suo caso), proprio ogni singola sera degli ultimi quattro anni di permanenza in una città strana, tentacolare e degradata come tutte le megalopoli moderne più rispettabili, eppure consumata da nostalgica vecchiezza tipica delle ormai obliate provincie rurali. Ormai, però, non contava più molto il frustrato disappunto per quella iniqua distanza tra le sue due piccole patrie di mercenario, la casa e lo stadio: se la fiammella mattutina che già aveva iniziato a farsi demiurgo del manico della caffettiera, fosse rimasta ad ardere… allora avrebbe potuto (dovuto? voluto?) anche spengersi, insieme con le esistenze – oh, che lisa immagine poetica! – di chissà quanti dei suoi bei giovani condomini, fiduciosi nel futuro come solo chi, sin dalla nascita, non ha avuto neppure da chiedere; eppure forse non così colpevoli quanto i parenti, genitori o amanti, da cui avevano ottenuto quell'agiata rendita sempre più tediata.
Non gli era nemmeno mai piaciuto, 'sto caffè! Tranne forse che per quel rassicurante sapore di consuetudine e d'onesta  rassegnazione quotidiana che gli proveniva, arricchendone l'aroma, dall'accidentale congiuntura che l'aveva portato ad essere così diffuso nel suo paese d'origine, quanto l'assenza di ogni generale vocazione al tragico. Nemmeno suo padre l'aveva mai gradito, né trovato necessario: anche per ciò, si disse, era sempre stato tanto solo da lasciarne l'involontario esempio al suo solo figlio.
 
E pensare che la volontà meccanica di un utensile, artefice catartico dei tragici destini altrui, niente avrebbe potuto se lui non avesse lasciato, nella distrazione più imperdonabile poiché generata dalla vana cura del sé, quel vuoto della sua volontà cui esso avrebbe potuto così sostituire la propria, riempiendo un vuoto come quello che separava adesso lui, quella sfera, e tutto ciò che gli stava di fronte, dalla sorte di altrettanti passivi destini altrui. Si ripetè, troppo tardi anche per ritenerlo migliore che mai, che sono così rari i momenti in cui la nostra volontà può qualcosa sia sulla causalità che, soprattutto, sulla casualità. Son così rari che imperdonabile sarebbe ogni assenza umana, nella circostanza. 
Fu allora, pervaso da inconsolabile nostalgia per ognuno di quei momenti di cui, nella vita, si era reso colpevole, quei momenti capaci di riaffiorare uno per uno sino all'ultimo potenziale delitto della sua ultima mattina, che egli trovò la disperata volontà d'eseguire quel tiro, compiere quell'unico gesto che poteva ancora nutrire – negli altri, non più in lui – l'illusione razionalistica sul ruolo dell'uomo. Quel gesto che avrebbe presto colmato il solo vuoto illogicamente non temuto, forse perché rimasto alla umana ragione ignoto: il vuoto che accoglie il boato.         


A Gianni Mura
che, senza saperlo, m'ha sfidato