22.6.13

E QUINDI USCIMMO A RIVEDER LE STELLE

Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico
che anno per anno indietreggia davanti a noi…


Era allora
la mia prima giovinezza:
nata forse tardi,
certo vissuta troppo.
Anch'io, talvolta ebbro
di quegli anni liberalizzati,
lasciai avvicendare, come molti,
infatuazioni ragionevoli,
per intensità e natura dell'oggetto,
rivelatesi comunque folli.
Tuttavia, forse complice
un conformismo poco narciso,
non seppi compiacermi
né fortificarmi, nella disfatta:
solo espiarne evanescenti colpe,
capolino ed epilogo
d'ogni volontà di potenza.

Il solo sincero afflato metafisico,
forse non degno di panteismi germanici,
alberga ancora, con rara dignità,
tra tali memorie coatte di quella comune età.

Quando, volendo concedermi
il pensiero, non già reciproco,
d'una lei tra le mie elette,
io attendevo notti limpide
ove confidare in bui sereni
come le rese di quegli anni.
Per cercarvi una stella
da immaginar lucente
sopra la casa, nella stanza
in cui ella, in quel momento,
condividesse i miei pensieri
pur volgendoli chissà dove;
e mossa da simili emozioni,
omologhe assurde ragioni,
a quella stella dedicasse
la vanità dei suoi sguardi
più amari, indifesi, lontani…
i nostri sguardi più umani.

E, seppur in fredda luce
a distanza di vite intere dalla mia,
trovar la stessa consolazione
che teneva vivo, in vita,
ciò che allora io ero, o credevo.

Mentre la luce
che poetai morente
soltanto per donarle speranza,
sarebbe rimasta lì, a custodirla:
sia che lei fosse ignara,
fredda e, infine, assente,
la stella lì sarebbe restata,
più fedele della dolente devozione
d'ogni mio giuramento interiore.


A te:
non io, non già, ch'io speri,
al pensier ti ricorro

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