28.9.11

RAGION PURA

Amore,
oggi al mio tavolo siede una giovane:
giovane donna colma di vecchia stanchezza 
nello sguardo, in viso, nelle membra.
Nell'incuranza profonda
di codici, calcolatrici, atlanti d'anatomia
che, bandite ogni poetica, ogni filosofia,
presidiano come statue i confini d'un compassato, sempre uguale
vuoto d'ordine sociale
Nell'estraneità apparente
lì aprì il proprio leggìo: la sua Scrittura,
un'ermeneutica della finitudine, figlia di ragion pura.
Amore,
per un angusto istante immoto
io non scelsi guardare, così come di tremare
al fondo del nostro unico cuore,
quel demone, quell'innocente
giunto a svelare quale divino celi l'umano,
interrogandoci muto come promesse, illusioni
di tutte le umane morti e resurrezioni.
Finché la τέχνη, infaticabile, è riaffiorata:
ad estenuare questa terra richiamata,
soffocando quel silenzio sacrale,
accecando il nostro dover guardare:
un Mac, un BlackBerry, un secondo cellulare
impietosi quel legno, quella carta bruciare 
in limpido rogo nutrire
il mio disprezzo più razionale.
Destinando altrove, elezione d'esilio,
questa mia fedele indignazione.


25.9.11

ONE DIMENSIONAL MAN

Farsi uomo, d'istinto
senza ragione.
Farsi un uomo migliore, forse 
anche solo per pudore.
Per vestire 
quella nudità interiore.
Provare a coprire
quel marchio sulla pelle di figli,
quelle stigmate d'appartenenza
ad un solo genitore.


24.9.11

SCALE DI SCUOLA

“E’ lì: un’evidenza, l’unica, della mia vita.”

Risorge la luce di settembre.
Un sole disarmato
nella resa ancora strappata
alla furia isterica della sabbia, del cemento.
Un calore che piano muore,
sfiorando stanco senza più  ferire.
La limpida evidenza
di eterni giovani mattini
per noi soli che ancora indugiamo
in quell’orizzonte sottile, ideale linea di confine  
sulla terra di nostalgia, sul nostro passato
nel suo grembo celato.
Per noi, disperata finzione
d’ estraneità al comune senso della disillusione
dolente e ineluttabile
per indugiare senza ragione né diritto 
di tornare su queste scale 
che conducono altri, ormai, a  ciò che più non ci appartiene.
Per noi, che in questi giorni
proviamo a dimenticare il dimesso pudore
della nostra buona, morta educazione:
quel pudore che piano ha levigato
i contorni più vivi di ciò che eravamo, di ciò che avremmo voluto,
di ciò che mai è stato.
Quando la solitudine sfiorava senza ancora ferire,
senza mai celarsi per poi tradire,
mostrandosi limpida nel contrasto con la vita
che assillante ci lusingava.
Noi tanti, tanti noi cercarsi al riparo di un tempo
in cui rinuncia, pentimento,
un qualcosa che non avremmo saputo 
né potuto.   

A quegli anni, a quei compagni,
nel vuoto che li lega, li preserva.


19.9.11

LA TERRA PROMESSA

La tua clavicola, il tuo sterno,
quella bianca terra di mezzo
che li separa senza confini,
sono in un uomo la fonte più pura
cui bagnarsi di commozione verso una donna.
Tutta la forza e l'innocenza
di quelle ossa, carne, nervi
lasciati esposti, nudi, inermi
dai veli delle tacite alleanze sociali,
per offrirsi senza scelta
agli occhi più timorati come a quelli più volgari,
agli sguardi più devoti come a quelli profanatori,
estranei al peso che il tuo petto accoglie,
destinato a recare tra lusinghe ed espiazioni
senza potersene mai separare.
Florido o avvizzito, sarà per sempre in quel tuo seno
da questa bianca terra solo intuito, vagheggiato, custodito;
nel suo peso cullato o rinnegato, il tuo destino.
Donna: la tua tirannide, la tua condanna.

16.9.11

PIAZZA IMMONDA

Ricorda, figlio mio, la felicità dei giochi non tenerla tutta per te.”


Errando tra magri banchetti
orfani d'un lavoro da festeggiare,
frugando tra ingenue magliette
per l'imminente stagione buona
nuovi alibi, identità, travestimenti
sotto cui inarcare i petti,
scagliare a padri così distratti e comprensivi
gli ultimi recitati esclamativi,
utopici anacronismi inoffensivi.
Vecchie maschere familiari
d'aristocratici guerriglieri, tirannici proletari
celavano i contorni iperreali
di un ultimo martire, ragazzo
Carlo Giuliani.

Carlo, eterno ragazzo in morte.
Carlo, vivo in noi
eterni ragazzi in vita.
Vivo in noi
morti prima, più di lui.

Carlo, tutto il tuo sangue da versare,
l'intera tua vita per riscattare
dall'informe prigione d'inutilità
l'irripetibile della tua sola età.
A chiuderti gli occhi nessuna consolazione:
nel cemento il partigiano non muore,
laddove sa che un fiore mai nascerà.

Resta, di quella piazza, la scritta a ricordare
una cronaca sempre più locale.

Carlo, la tua Resistenza fatta quel giorno,
la tua Resistenza durata un giorno:
Resistenza, nelle parole nostalgia di una madre
che nomi non sa trovare,
smarrite le cose da nominare.
La tua generosità di rinunciare al mare,
la curiosità di non fermarti a guardare,
la vanità di chi sa senza imparare,
di chi cade senza lottare
- in un agone tragico da fame:
d'identità contro normalità.

Carlo, dalla riviera io mi chiedevo quel mattino
fissando l'Unità accanto al cappuccino,
se qualcosa ti dissero, tua madre e tuo padre,
prima di consegnarti a quel mondo da detestare,
prima di lasciare alla violenza della tua ignoranza
quel mondo che loro non seppero cambiare.
E se qualcosa chiedano, oggi, a questo Stato criminale:
forse di rinnegare se stesso, il proprio ruolo patriarcale,
e come loro farsi da parte, stare a guardare?

Dando a voi ogni libertà,
anche quella di non saper che fare:
per assolversi
al cospetto dei propri cuori
solo facendosi dai vostri occhi guardare
e dai vostri soli desideri, condannare.



A Carlo Giuliani,
ragazzo

15.9.11

L'AMORE AI TEMPI DEI PIDOCCHIETTI

“...amori, il cui ricordo ancora mi fa piangere.”

Mi abbonai all'intera stagione
di film in lingua originale
com'era ovvio e mai banale
in molte delle scelte, allora:
perché c'era una lei
a cui non saper ancora
sin da principio rinunciare.
Una delle prime lei,
immune all'espiazione di colpe altrui
cui in tanti avremmo provato
a condannare ogni lei a venire.
Una lei che ancora oggi,
guardando come in vite d'altri
quei letterari sussulti puerili,
quegli ultimi no che ci ferirono
lasciandoci ancora vivi,
non riesco né forse ho mai voluto
ricordare diversa da ciò che era,
cedendo alla tentazione di un'arida consolazione.

Così ogni settimana vivevo nell'attesa di una sera,
quelle ore in cui gioire solo restandola a guardare,
sederle accanto come fossimo noi due soli,
avvolti nell'abbraccio nostalgico, compiacente
di quell'aria umida di polvere ed inchiostro,
in quell'odore fondo, pungente
di pellicola, antico fumo, sperma secco, altrui;
tutte le solitudini passate che non avremmo mai saputo,
così distanti e insieme così familiari
dalle domeniche pomeriggio della mia infanzia,
da mio padre e due biglietti strappati in qualche sala parrocchiale.
Sentirla così vicina, poter nutrire di lei
la mia illusione per averla, forse un giorno, reale.
Nella quiete di quella penombra, protetto
senza nascondermi, non vergognarmi né dovermi giustificare
di non volermela solo scopare.
Una sera, non seppi mai perché
ma protessi quel mistero da ogni più volgare
svelamento ragionevole, imparziale,
lei poggiò la sua testa su questa spalla:
ed io rimasi fermo, capendo solo nel ricordo
di aver intuito l'unica cosa che avrei potuto fare;
così che quel momento restasse alle sue mani,
lei sola dargli un perché, un possibile domani:
liberandomi dal rimorso per qualcosa d'infranto,
lasciando a me le braci d'oppio da ravvivare
nel coraggio infantile, l'adulta incoscienza di ricordare.


12.9.11

AGIOGRAFIA AMOROSA

Noi, iniziati ai misteri di un amore mai svelati,
d'istinto violentiamo la nostra natura
umiliandoci in pubblica gogna di questa gabbia di carne
nell'inconscia, struggente nostalgia
d'una ormai perduta androginia.
Affannandoci al riparo di volontaria espiazione
perché indegno è in noi ciò che vediamo:
indegno di quel calore
che dal grembo caldo della prima madre
sino al grembo freddo dell'ultima,
noi nudi, urlanti invochiamo.
Noi, bambini inghiottiti
insieme con le umane miserie dei genitori
per non dover guardare in volto i propri dei
e poter morire piano, nel tepore delle loro braccia assolte,
nel tormento sottile e tagliente dei nostri tumori.
Così un uomo che di Dio comprenderà
sempre e soltanto l'autorità,
giura davanti ai suoi ministri la propria candida fedeltà.
Così un uomo abbandona della propria infanzia rinnegata
tutto ciò che non nutra quella pietà affamata
in fondo al cuore feroce della sua prossima nuova madre.

10.9.11

I NOSTRI CAZZI

Ho visto Nina volare tra le corde dell'altalena...”

Oggi, quando le guardo, ho un sussulto all'inguine, non più al petto:
è nel pene, oggi, che pulsa quel sangue tolto al mio cuore.
Ma un tempo c'era stato, anche a me fu dato un tempo per amare.
Amai una bambina, ciò che anche io ero. Avevamo tredici anni.
Ero un bambino e come un bambino la amai: so che la amai,
come ricordo Pietro dalle sue lacrime purificato,
così non dimentico la notte in cui piansi per lei.
Non avevo mai toccato un corpo femminile, prima, 
né toccai il suo, mai.
Aveva un nome da favola che non spaventava,
un nome di bambola dai capelli di lana: 
Carolina, sin dalle prime parole battezzatasi Nina.
Nina che io ancora avrei trattenuto nei pomeriggi sull'altalena,
lei che ormai attendeva le sere, l'ebrezza pungente di quel pene,
l'arte preziosa delle prime, forse ultime seghe donate con devozione.
Nina, non credo fosse l'amore ciò che cercavi allora,
ma solo bagnarti, prima di ogni altra, in quella luce riflessa:
nella gratificazione di sentir pulsare tra le tue dita il potere,
guidare per qualche avaro istante il bastone
di quei valorosi senza cuore che avevano ucciso, schernendolo, ogni amore.
Nina, tu per loro non avevi un volto da ricordare né occhi da cercare:
solo un petto - pere le chiamavano, narrandole impertinenti, scure, piene
solo un grembo - fessa dicevano la ferita aperta, mai guarita, dove in te frugavano.
Nina, io che solo ti guardavo alla luce di quei giorni,
io che avrei voluto perdermi nel tuo blu vuoto, freddo, profondo,
io solo, per te, erezioni di emozione, brividi di commozione.
Saremmo stati bene noi, immuni al desiderio e all'invidia altrui, 
immaginavo senza affanno, libero dalla speranza e da ogni suo inganno.
Tu avresti lasciato senza rimpianto ogni tuo cazzo al passato,
io avrei smesso di sentirmi te, inutile e imbarazzante dopo averlo svuotato.
Nina, ti sei accorta di avere un corpo, lì ti sei trovata una mattina,
e prima ancora di chiederti che farne, sono venuti a prendertelo, gettandolo presto via.
Quel tuo corpo, senza poter capire in cosa ti apparteneva, 
tolto per sempre insieme a quanto lo copriva, in una sera.
Ed io, solo ed inutile nominare allora 
quella parola che forse oggi, sciocca, tu ignori ancora.

9.9.11

LA SOLITUDINE DEI CANI

Sono gli altri che lo decidono quando uno deve diventare matto.”

Per guardare ciò che ho visto, per ricordare ciò che rimane
quanto di voi in me dovrò per sempre dimenticare?
Quanto lasciarvi di me che da sempre vi appartiene?
Io vi sento, ancora. Io che difendo, ora
nella sterile bianca luce di questo mondo vostro
ogni mia fragile, ostinata parola.
Ogni parola invocata che a me viene,
ogni parola che mi consola e non mi appartiene.
Ogni parola che voi tutti, paterne maschere deformi, 
accecanti di agnosticismi mal recitati,
per il vostro esangue diletto ancora in me 
sapreste dissanguare, d'ogni stilla
in un sudario di scherno feroce, di indifferenza atroce 
rinchiusa, ad un freddo pugno di terra abbandonare.
Voi e la vostra fierezza impunita d'estraneità innata
al pudore anche di un istante disarmato d'esitazione.
Voi e il vostro tremore d'infenzione, orrore di quanto genera 
l'ozio malato, parassitario del mio guardare.
Voi tutti voltati in un istante
altrove d'ogni residuo osceno reale,
voi rivolti nell'unica direzione, 
verso la cadente illusione di un perpetuo, muto fare.

Io, nobiltà decaduta di questa mia vita invenduta,
dallo schermo trasparente di un treno puntuale, gremito, rassicurante
Io come un reporter dietro ai filtri dei suoi obiettivi
puntati su uomini e terre di fame e di guerre,
cerco le mie colonne etiche stagliarsi sulle paludi rimaste.
Trovo un solo uomo, lì fuori. 
Un uomo solo, un cane, una morte.
Una morte che scivola oltre, trafelata:
in volto il disprezzo composto dell'italiano morboso,
quell'antico piglio operoso di decoro esibito, prudentemente oltraggiato.
Una morte provocatrice, ben piantata
su membra dure di schiavi meschini, delatori di lager,
nella coltre velenosa di un tabacco miserabile, di un ghigno tagliente
affilato nell'infantile leggerezza di slava indolenza.
E' la morte sociale, la morte che per un uomo solo non giunge mai puntuale.
Quest'uomo e le sue braccia blu di fantasie sbiadite,
le sue braccia sole su cui issarsi per cadere, ogni volta, ancora.
Nei solchi fondi degli occhi, le gote esplose di rosso, la barba ingiallita,
la sua ultima, unica maschera di dolore.
Dolore di chi non sa più camminare,
disperazione di chi non ha più dove andare.
Un uomo, un cane: 
annoiato ma rispettoso, sbadiglia composto, 
dispera, forse, ma non si allontana.
Un uomo, il suo cane: 
quell'ultima, unica vita 
cui l'ho lasciato andando via.
Dimenticandolo, prima di usarlo per farne poesia.


8.9.11

ALI DI CEMENTO

E rimaneva a guardarti svanire,
la mia nostalgia,
persa nel vetro del levriero d'acciaio.
La metropoli tua madre cui tornavi,
addormentava in un pianto blues d'alba
la brace fremente del tuo selvaggio manto,
scioglieva tappeti di fumo ed asfalto lucente
perché non vi fosse inverno 
a poter ferire il tintinnio dei tuoi passi
né ritorno ad incatenarli di nostalgia.

Inverno '99

6.9.11

ODORE DI UN INVERNO

"Fore a 'stu carcere 'o sole ce sta"

Soffieranno ceneri,
lacrime di stelle,
a levigare dolcezza 
sulla tua bianca terra
Scorreranno catene 
di umana miseria 
a levigarne la seta
in muto incanto di padri.
Sudari di buio vento
lambiranno di pace 
il sonno del tempo...
E sul canto a Madre Morte
dei giovani sentieri d'acqua,
respiro del tuo grembo,
sopravvissuta al tempo
veglierà la mia notte.

Autunno '98


4.9.11

LA SOLITUDINE DEL PADRONE

Come ogni cane
segue il proprio barbone
Così ogni figlio
guarda a suo padre: 
fermo, immobile 
nello stesso schiavo amore.


2.9.11

GONE BACK SEPTEMBER

Questa notte 
ho incontrato Fichte il filosofo
dopo non so quanti anni.
Continuavo a fissare Bertrand Russell 
sul suo corso di filosofia monumentale
ammirandone quella che mi appariva disinvoltura 
nel posare classicamente in un profilo ingombrante,
non greco né francese.
Ne indagavo analogie, 
attingendone calde nostalgie,
con la vecchiezza confortante del mio docente
di filosofia del liceo.
Un vecchio uomo impeccabile
nella sua composta modestia, 
nella decorosa dignità dei suoi colletti
lisi e ben stirati,
nel lei che porgeva e mai soppesava
a colleghi insegnanti e bidelli.
Un vecchio uomo commovente
nel chiederci, coralmente, di essergli d'aiuto
nel pronunziare una parola di lingua inglese.
Credo che anche il più misero, tra noi,
verso gli altri e verso se stesso, 
abbia trovato almeno una volta il proposito,
forse tradito, nei suoi occhi 
sinceramente rammaricati per un'insufficienza 
pienamente meritata.
Un uomo che amai, 
credo e non voglio dubitarne, ormai,
forse al punto di fingere ignoranza,
nelle rare occorrenze.
Il liceo... per qualche quieto istante,
in quella tiepida matura notte di settembre,
non avrei voluto che esser lì:
tornarvi senza un domani, in un oggi
tendente ad infinito.
Quando le pene duravano un'interrogazione
e quanto d'un niente la precede,
le speranze ancora sorgevano, né sfiorivano
di una singola delusione.
Quando l'amore sembrava sfuggire
per sempre ai come amari della disillusione:
era un plurale, era nei capitoli conclusi 
dei nostri testi mai terminati.

L'amore era, allora.
E quanti tra quegli amori non corrisposti

avremmo mai detto mal riposti?
Allora che avevamo la forza e la fame

di dirlo, di ripeterlo a noi, ancora.


Al mio caro professore,
tra tanti, troppi, 
raro insegnante

1.9.11

APOLOGIA DI UN AMORE

Mie le nevrosi,
tuo il guinzaglio.