30.8.11

DI POETI E GIOCATORI

"...La cui soave saggezza gli serve a vivere, non l'ha mai liberato."

Siamo noi, gli italiani
Siamo noi, sempre uguali
Siamo noi, ancora fieri
di non esser gli stranieri
Noi, lustri mocassini firmati
Noi, sapienti squarci attillati
Noi, stomaci schivi e ben rasati
Noi, coloni rinnegati
in un oggi senza ieri
Noi, figli ben cresciuti
ormai grandi puttanieri
Noi, gonfi e tatuati
da calciatori mascherati
Noi, servi troppo saggi 
per scomporsi in una reazione
Noi, duci troppo artisti
per non perdersi in contemplazione

Paese mio patrigno,
mai palpito ebbe il tuo occhio
se non per il suo specchio.

29.8.11

MACELLERIA CONIUGALE

Tu e il tuo tenero castrato...
Quand'era solo e smarrito, 
con salda mano lieve 
devi averlo preso ed in te lenito.
Se mai altrove fu allettato, sapiente 
irresistibile nel tuo ermetico ricatto,
all'ordine del tuo imene l'avrai condotto.

Allora ti attendeva, 

quasi come l'avevi lasciato
dall'operosa buon'ora del tuo bilocale,
composto come ogni sera.
Lì, placido e grato,
quel cucciolo che mai hai comprato,
al riparo d'ogni calore confinato
a lato del precotto quasi scaduto.

Chissà quanto, devoto, ti avrà sfamato
prima di averti irrevocabilmente nauseato
e mai una volta davvero saziato.


28.8.11

FUORI SEDE

Padroni di case 
tronfi d’una sedimentata, ereditaria 
padronanza dell’assenza:
d’ogni ingombrante pudore,
d'ogni infruttuoso decoro,
d'ogni rischiosa debolezza d'umanità.
Padroni 
in disinvolta, consumata esibizione
d’una consunta quanto eterna, 
nelle sue facciate sbiadite di tarda estate,
aristocratica parassitaria condizione.
Padroni 
che svelano come padri d'adozione,
decantando con suadente intimità famigliare
le inarrivabili meraviglie della città d’arte
di fuori così assillante
ed, insieme, così fatalmente beffarda, distante.
Città 
come lussuose pertinenze
dei creativi concetti di dimore
che essi concedevano, mai abbastanza care:
in quegli opachi pavimenti  
muffivano in croste come di tele o affreschi
a beneficio di sgraziati, infantili turisti,
per noi tutti paganti
gli immortali fasti del Paese più bello, 
più scaltro del mondo.   

27.8.11

MALEDIZIONE D'ISTRUZIONE

Tutti i diplomi, tutte le lauree
che, zelanti o indolenti, alfine
sollevati avete incorniciato.
Che avari e secchi
come rami spogliati in stecchi
hanno gratificato
le virtuose attese di genitori,
le smaniose brame di figli, voi.
Voi che vuoti e lievi
avete lasciato senza esitare,
eletti ancora a farsi tentare,
il tempo irripetibile
che tributaste allora:
nessuna illusione di generosità
nella vostra inesperta e saccente stupidità,
non degnereste oggi
che di uno sguardo obliquo ed imbarazzato,
come ad un parente 
per formale rispetto ancora considerato.
Tutto questo
per non vedere
che la meschina cecità d’ogni vostro gesto,
per non sentire
che l’orante comunione dei vostri pensieri,
per non sapere più nemmeno compatire 
le vostre ambite 
ascese mai intraprese, le vostre carriere già finite.
Nell’incolmabile oblio, la struggente nostalgia
del buon senso ancora vivo, fuor di retorica, popolare
di una nonna o una zia
e la faticosa dignità d’una licenza elementare.
Per lasciarmi qui, solo, a maledire
inutile e cadente quanto le vostre pergamene ingiallite
l'inganno crudele della più democratica istruzione:
gorgo irresistibile, rovina morbosa di giocatore
delle nostre diverse, indistinguibili vite.


26.8.11

IMPOTENZE

Abdico al cazzo

Svesto, infine,
tra elezione filosofica
e costrizione pragmatica
questa mia retrò,
succinta, ormai lisa
identità erotica.


25.8.11

INGENUITA’ D’UMANITA’        

Esaurienti gli insegnamenti
presi alle vite consegnate fiduciose,
conservate intatte nelle frugali attese
in stagioni orbe di toccanti variazioni,
di tutte le più rischiose passioni.

Eloquenti gli incontri casuali,
le attese tradite di emozioni rimaste ignote,
tra impotenti livori ed arida compassione.

Quell’umanità allineata in obbedienza 
decorosa, composta, silenziosa:
una schiavitù di corruzione
che ancora sa affollare pensieri,
farsi rimpiangere per qualcosa
che in nessun dove, nessun altrove
mai riposa.

Toccare, ferire, lenire, segnare
ogni solo, stremato
umano cuore muto.   


23.8.11

POESIA DI DISLESSIA

Quelle parole avvicinate
senza coraggio né timore
come mammelle stanche ad un bancone.

Quelle parole trascinate
nell'alibi del buio minacciato d'alba,
dentro soliloqui dolciastri ed impastati
che non colmano silenzio,
che non fugano dolore.

Quelle parole attraenti
come femmine all'ultimo bicchiere:
illusione di poesia, disperazione di piacere.

Ritrovarle nel pallido mattino luminoso
custode d'un reale ancora impietoso:
il loro tacito rancore
ormai sola costernazione
per la nostra, per la propria estraneità
anche al pudore.

Ricordarle nelle frasi sofferte
del mio studente molle come vecchio
trascinarsi nella zoppia
d'una matrigna dislessia:
la vergogna nel non capire quanto scritto,
la pena nel ricordare di averlo fatto.

19.8.11

PENE  CAPITALI

Quando nell'emigrazione qualcosa ancora pulsava...
Qualcosa di intimo e tremante:
sordo, ancora, al comune richiamo d'inerzia bestiale.

Una visione che la mente divideva con il cuore,
nella promessa sciolta da ogni prossima disperazione:
quella paziente, decorosa costruzione
di una vita migliore.

Fu allora 
che ad alcuni apparve Milano 
- grigia, contabile, rassicurante.

Fu allora 
che ad altri si fece incontro Roma 
- gialla, burocratica, avvilente.

Un'ostilità dichiarata 
che schiaffeggiò
quelli di disperazione.

Una fraternità mistificata 
che lusingò
questi di comprensione.

In tutti loro
l'asfissiante prossimità al potere, 
temporale e spirituale;
il sibilo assordante
memoria della propria esclusione.

Nel destino di ognuno, 
scelta o fuga sulla linea di confine
tra miseria e tragedia.

Tra la resa della dignità stessa al dolore
e una schiena salda, in composta accettazione
della propria comminata condizione.


17.8.11

SHE’S HALF MY AGE – LA SOLITUDINE DEI VETERANI

Do androids dream of electric sheep?”


Tante, troppe ormai le mattine 
in cui non vedo in voi che le bambine:
in ognuna, la figlia
per cui non ebbi coraggio, incoscienza
o soltanto ipocrisia.
La figlia di cui mai mi tolsi la voglia,
in cui non cercai rifugio né ostentai alibi
a questa mia,
nostra incurabile malattia.

Quando nella quiete pura
della buonora più dura,
tra l’odore di petrolio ancora rassicurante
che dall’Est giunge nella sabbia graffiante,
vi frugo una ad una, vi scorro lente
come in perdute offerte votive, solenni. 

Quando gracili come cuccioli randagi
o sfatte come burrose mignotte
al recinto dei set vi consegnate
tra cautele soffocate e fierezze ostentate
sin dalle valli suburbane
fonde, velenose, sterminate;
o già lì: ancora inermi, raggomitolate
nei divani letto
dei nostri grotteschi focolari in affitto.   

Per quei vostri capelli ancora liberi o raccolti,
quegli occhi puliti e bianchi di promessa cocaina,
sono soltanto un padre:
solo un padre, impossibile e inevitabile.
Un padre che ritrova le sue creature,
in mattine sempre nuove e familiari.
In petto l’infaticabile ideale
di avere per loro ancora qualcosa:
qualcosa da dire, da lasciare.

Vedo in me il padre,
vedo quanto perdutamente seduce l’uomo,
ogni vita negata dalla vita scelta o consegnata,
ogni inverosimile esistenza bruciata
da quell’unica, tremula fiammella osata. 
Vedo me, quando ero un volto
senza nome da ricordare,
prima che un nome
senza volto da inquadrare.
Vedo me e tutte le vostre sorelle
perdute in questa metropoli bulimica di speranze sole,
di forze stremate, morte disperate.

Quando ero solo un palestrato frustrato,
neanche culturista mai arrivato,
quanto tenaci quelle dolenti erezioni,
pudicamente assenti ormai le emozioni:
i vostri seni di donne, le vostre mani di bambine
rubati in quei chilometri di esistenza comune
dalla distanza beffarda del mio sedile,
conservati feroce negli occhi della testa
durante le lunghe polverose ripetizioni in palestra
fino alla liberazione che mi concedevo a fine sessione.

Poi un giorno, attore,
quella promessa lontana, sempre tradita,
giungere piano, farsi vita
nel tocco delle vostre vergini dita
forgiate per condurre la mia verga nodosa
in ogni nervo, ogni vena, ogni ragione  
sino allo spasmo tesa.
Nei vostri occhi concessi in un sorriso ritrovato
solo a scena finita, intuendomi ormai innocuo
nell’unica fatale nudità dell’uomo,
l’unica che non possa ingannare:
che lo segue di un passo, appena venuto;
che gli copre le spalle
svanendo al ritorno del desiderio.

Infine regista, quell’appetito senza fame,
quell’ultimo gioco d’eccitazione senza erezione,
quell’impulso insaziabile di venirvi a cercare:
nei parchi, rivenditori di bimbi per froci e spacciatori;
lungo le spiagge, avvelenate di surfisti finiti come liquori;
dietro ai parcheggi, i lunghi digiuni allucinati
d’hamburger fumanti dentro nafta, asfalto, copertoni.  

Voi tutte, per cui sono stato  
giovane e vecchio,
desiderato e disprezzato,
padrone e schiavo.
Voi che avete colmato nell’illusione
soave come la ferocia innocente
di chi non conosce il male,
quella nostalgia di voi mai incontrate
quando avrei potuto senza vergogna,
avrei voluto 
ma ancora non eravate nate.
E non c’è fame che si possa placare
se del digiuno si sia nutrita:
non c’è palestra, gang bang, viagra
che sottragga la mia carne alla sua piaga.
Non avrà fine, morirà con me.

E prima di far tacere questo richiamo,
liberarmi da questo corpo e dal suo padrone,
io vi volevo ringraziare. 
Nell'infantile speranza
che mi possiate ricordare
oltre il tempo di un ultimo anale.


Ad Arnold Schwarzenpecker

15.8.11

LA SOLITUDINE DEI MODELLI

“E tornino a crepare ma dal ridere le nostre madonne bulimiche”


Guardavo le vostre camminate sulle battigie,
le vostre passeggiate sulle passerelle dei bagnasciuga.
Guardavo le vostre andature controllate:
il petto in fuori maschile,  il culo in su femminile,
l’ostentata complicità di coppia sull’ultima campagna di moda modellata,
il richiamo dissimulato verso carni succulente solo perché ignote, nuove
alla estenuante successione mnemonica di gesti e sensazioni già consumate.
Dissimulato come la patetica, ingombrante eredità di zelanti donnette
dalle vostre madri lasciata, 
disperatamente nobilitata nel rifugio della griffe più ambita,
ad assottigliare il vostro patrimonio giovanile perentorio.
Dissimulato quanto esibita la vostra incrollabile monogamia ideale,
di giovani cultori più che del moderno, di ciò che è a venire,
dell’oblio compiaciuto di ciò che è stato,
di un passato che fatalmente finite per riportare in vita,
inconsci mimi, orgoglio di nonni o genitori.
La vostra monogamia che resta una catena affezionata, istintiva,
di cui ignorare l’estensione, non comprendere la funzione.
Guardavo le vostre anche sporgenti: le grida sottopelle
di tutti quei mesi, anni di dolenti rinunce, di miserabili speranze.
Guardavo i vostri petti vitaminizzati, unti e rasi: goffa parodia
d’una vuota kalokagathia che in nulla vi sublima,  
se non nella narcisistica gratificazione dell’amplesso, la sua compulsiva collezione;
 o forse, ormai, solo nella crogiolante soddisfazione della vostra elezione,
della vostra ammissione all’elite desiderante,
come oggetti non troppo stridenti con l’immaginario di tronisti e corteggiatori.
E tutta la strada percorsa a testa china
sino alla meta sfuggente di questa battigia… mai che vi plachi,
mai che vi spogli, nella vostra nudità oscenamente innaturale,
dal limbo di eterni imploranti.
Concedendovi con la sapienza della crudeltà solo un doloroso respiro,
solo un gracile sollievo di scampata indegnità,
solo un angusto scampo feriale al male così banale
del vostro lager nazionalpopolare.


A Cris,
che mi ha portato a guardare