MADRI PLATONICHE
“Mia nonna sta morendo –
come molti di noi da anni ormai, forse per lei ora giunti alla fine. Mia nonna
muore ed io non riesco a sentire niente, all'infuori di un misero disagio per
quello che è di lei adesso e potrebbe essere un giorno, non lontano, di mia
madre. Non credo di sentire altro, io che da bambino avevo mantenuto a lungo,
come una fidata via di fuga, il proposito di morire a mia volta, quando sarebbe
toccato a mia nonna. Perché non riconoscevo altra vita possibile, amputato quel
legame: il più forte e vitale dei miei primi anni di vita. Ecco cos'era, un
legame, tenuto stretto dal bisogno – credo
reciproco – e non dal bene. Come con le
donne che sarebbero arrivate, per poi lasciarmi tutte lì impotente, capace solo
di guardar passare quel tempo necessario a disintossicarmi di loro... e
ritrovarmi a pensarle, per il resto dei miei giorni, come corpi che, soffocato
il cuore, non avrebbero comunque mai smesso di farmi pulsare laggiù,
nell'inguine. Insomma, come ammonisce certa saggezza popolare, 'Care t'ha
custàte, 'ssa pelle!'... A significare che, lo si voglia o no, questo è quanto
resta impresso, indelebile. Così di mia nonna non mi rimarrà, per sempre, che il calore di quelle sue mani, strette per notti infinite come quel buio senza speranza di luce, né di un giorno felice.
... Forse avevamo tutti bisogno di troppo amore perché ce lo potessimo mai dare, o abbandonare quell'illusione.”
“Mi guardò fisso fisso ma con
tanta dolcezza, Nonna... Mi avevano detto di abbracciarla... Mi piegai sul
letto. Mi fece il gesto di no... Sorrise ancora un poco... Voleva dirmi
qualcosa... Gli rantolava nella gola, senza finire mai... ma a un tratto ci
riuscì... il più dolcemente possibile... 'Lavora bene, Nanduccio mio!' ha
sussurrato... Non avevo paura di lei... Ci si capiva là nel profondo delle
cose... Dopo tutto è vero insomma ho lavorato bene... Ma questo non importa a
nessuno...”