15.9.11

L'AMORE AI TEMPI DEI PIDOCCHIETTI

“...amori, il cui ricordo ancora mi fa piangere.”

Mi abbonai all'intera stagione
di film in lingua originale
com'era ovvio e mai banale
in molte delle scelte, allora:
perché c'era una lei
a cui non saper ancora
sin da principio rinunciare.
Una delle prime lei,
immune all'espiazione di colpe altrui
cui in tanti avremmo provato
a condannare ogni lei a venire.
Una lei che ancora oggi,
guardando come in vite d'altri
quei letterari sussulti puerili,
quegli ultimi no che ci ferirono
lasciandoci ancora vivi,
non riesco né forse ho mai voluto
ricordare diversa da ciò che era,
cedendo alla tentazione di un'arida consolazione.

Così ogni settimana vivevo nell'attesa di una sera,
quelle ore in cui gioire solo restandola a guardare,
sederle accanto come fossimo noi due soli,
avvolti nell'abbraccio nostalgico, compiacente
di quell'aria umida di polvere ed inchiostro,
in quell'odore fondo, pungente
di pellicola, antico fumo, sperma secco, altrui;
tutte le solitudini passate che non avremmo mai saputo,
così distanti e insieme così familiari
dalle domeniche pomeriggio della mia infanzia,
da mio padre e due biglietti strappati in qualche sala parrocchiale.
Sentirla così vicina, poter nutrire di lei
la mia illusione per averla, forse un giorno, reale.
Nella quiete di quella penombra, protetto
senza nascondermi, non vergognarmi né dovermi giustificare
di non volermela solo scopare.
Una sera, non seppi mai perché
ma protessi quel mistero da ogni più volgare
svelamento ragionevole, imparziale,
lei poggiò la sua testa su questa spalla:
ed io rimasi fermo, capendo solo nel ricordo
di aver intuito l'unica cosa che avrei potuto fare;
così che quel momento restasse alle sue mani,
lei sola dargli un perché, un possibile domani:
liberandomi dal rimorso per qualcosa d'infranto,
lasciando a me le braci d'oppio da ravvivare
nel coraggio infantile, l'adulta incoscienza di ricordare.


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