IL
VUOTO CHE ACCOGLIE IL BOATO
Su un
calcio di rigore un grande scrittore
ci
potrebbe scrivere un racconto
Lui
aveva sempre creduto – e forse anche saputo – che per eseguire un tiro decisivo
che finisca per rivelarsi davvero tale, mai e poi mai si dovrebbe pensare ad
esso per quello che sta a rappresentare: un tiro decisivo, appunto. Già, ma allora a che cosa si dovrebbe piuttosto pensare? (Sempre ammesso che si
debba farlo!)
Questa
domanda perfettamente logica, tempestiva, quanto a sua volta decisiva, lo
assalì proprio nel momento in cui era da lui che ci si attendeva un tiro
decisivo, che per tanti (forse troppi!) occhi fissi su quella sola sfera che
iniziava a scottargli tra le mani, sarebbe stato il tiro decisivo.
Quindi
a che cosa avrebbe dovuto pensare, lui, nell'atto del suo tiro? Probabilmente
non avrebbe trovato una risposta utile tra tutte le possibili e le plausibili;
fatto stava che non ebbe neanche il modo di porsi seriamente quella domanda.
Ciò non a causa del compito che era chiamato a svolgere nella circostanza; non
a causa del ruolo che per un lungo tempo egli aveva sinceramente desiderato
ricoprire, ma che solo allora gli sembrava di non volere più, incapace di
reggerne il peso (peso della superflua ipocrisia cui si era prestato: lo
squilibrio tra le aspettative e la gratificazione di tutti quegli occhi sarebbe
rimasto per sempre un colpevole delitto, al di là dei possibili esiti
contingenti); e nemmeno a causa
della angustia temporale del momento: di fatto, mai quanto in simili frangenti,
si può ottenere la prova empirica della teoria secondo cui il tempo è concetto
elastico – oltre che relativo – e la rapidità del pensiero sa ben sfruttare
tale sua elasticità, in una rappresentazione plastica molto simile a quella del
campo gravitazionale terrestre, illustrato come un'armoniosa concavità ondulata
in uno di quei programmi televisivi
dalle velleità scientifiche.
Dunque
no. Il non avere modo di porsi con la dovuta pace mentale quella domanda, non
dipese proprio dal fatto che, in vece del pensiero, egli fosse allora chiamato
ad obbedire all'azione; profondendovi, quasi consacrandovi, hic et nunc ogni
risorsa fisica e mentale… Ma non ci fu modo di porsi la interessante domanda
soltanto perché in quell'irrilevante tutto spazio-temporale che lo separava dal
punto esatto del campo da gioco e il termine della ideale traiettoria richiesta alla
sfera sempre più calda che ancora custodiva tra le sue mani, innumerevoli altre
domande finirono per assalirlo, quasi accalcandosi per tormentarlo, come
giovani coetanei troppo sicuri di sé per temere una significativa reazione da
parte della loro vittima.
Gli
fu dunque chiesto – non avrebbe mai saputo dire da chi né perché – se
sospettasse il motivo per cui fu adottato quel genere di regola, ossia tiro da
fermo come punizione, nel gioco che fino
a quel momento lui aveva praticato per venti anni esatti; e se ravvisasse,
inoltre, qualche differenza tra quella regola e le analoghe vigenti in altri
celebri sports, accomunabili al suo anche per l'elezione d'idoli più o meno
osannati e, proporzionalmente, minacciati da una simbolica crocifissione.
Gli
fu chiesto che cosa avrebbe preferito – qualora avesse potuto scegliere sul
serio, qualora ne avesse avuto il talento fisico e mentale, oltre che
proporzionale coraggio morale – se “realizzare” il tiro (nel senso
d'indirizzarlo laddove circa una
metà delle altrui aspettative convergeva) così da venire consegnato all'oblio
dei suoi seguaci dopo il relativo lasso di tempo plausibile per l'ultima pagana
idolatria; oppure se fallirlo, e non sapere quanto lunga sarebbe stata l'attesa
da tollerare, ora con una molle indifferenza ora tra incalzanti imprecazioni
d'impotenza, prima di poter raggiungere una identica beatitudine, propria
d'ogni meritato anonimato che si sia riguadagnato.
Gli
fu chiesto – mentre, curiosamente, egli sembrava avere sospeso per un immoto
istante il proprio esistere e tutto ciò che gli pulsava attorno feroce quanto
rispettosamente cauto per il timore di turbarlo – se sarebbe stato poi meglio
avere di fronte a sé un altro essere umano, gravato da speculare, antitetica responsabilità,
e dunque anche da una solitudine parimenti incolmabile; o se fosse invece
preferibile quella apparente insensibilità che convenzionalmente attribuiamo ad
un oggetto – metallo e fibra sintetica, in quel caso – che, se non altro, aveva
rilevanti probabilità di sopravvivergli e dunque, benché della consustanziale
atarassìa degli oggetti egli non avesse la prova scientifica, avrebbe
rappresentato tuttavia una consolazione dall'apprezzabile effetto placebo: medicamentum
animi che, nella saggezza popolare, o nella filosofia leopardiana, era
riassumibile – per un atleta dalla erudizione superiore alla media – forse nel
più fruibile 'mal comune mezzo gaudio' (specie se il male altrui si prospetta
più durevole del proprio, avrebbe aggiunto!).
Non
si esaurì poi lì la sequenza di fondamentali questioni che proprio quel momento
avevano scelto per sfidare la sua capacità di pensiero astratto. Un pensiero
che non serve a nulla, proprio come la filosofia, ma che pare rimanere
una condizione preliminare irrinunciabile per chiunque voglia acquisire una
competenza applicata spendibile sul mercato. Ricordava, a tale riguardo, dei
quesiti di logica che erano infine rimasti a separare, frapponendosi con la
canagliesca impunità dei dati di fatto, le sue gracili chimere intellettuali
dalla robusta perentorietà della burocrazia accademica, nel concedere pari
opportunità agli studenti meno abbienti ma meritevoli. Una formula
sibillina… Meritevoli nonostante la minore abbienza, o meno abbienti
tuttavia ricompensati, dal destino prima e dall'umano consorzio poi,
mediante una meritevolezza di cui tutti gli altri, gli abbienti, quand'anche ne
fossero stati provvisti, non avrebbero avuto bisogno? Le
speculazioni intorno al ma di quella formula fiaccarono, nella distante ma
ancora mortificante circostanza, un'ampia parte
delle risorse logiche che invece sarebbe stato tenuto a profondere
nel test, una valutazione oggettiva ed esatta del suo diritto all'ambizione
sociale – nella migliore tradizione di efficienza liberale, si sarebbe potuto
ironizzare ex post, forti dell'immunità che dona ogni disillusione!
Ergo,
non essendosi esaurita lì la sequenza di interrogativi, gli fu chiesto, come in
un montante crescendo musicale, se prima di uscire da casa sua, quella mattina,
avesse spento la fiammella che sibilava discreta, come di consueto, sotto alla
caffettiera, proprio mentre lui – questo se lo ricordava lucidamente, nella sua
inutilità! – indugiava afflitto dinanzi all'ingiusta immagine riflessa del suo
cranio pudicamente rasato, causa l'alopecia, ma talmente distante dall'armonia
anche cromatica di quel Michael Jordan fluttuante nell'aria, grondante
lucentezza di trance agonistica, dalla porta della cameretta in casa dei suoi
genitori. Ricordava
anche il denso odore della plastica liquida che lo aveva raggiunto al bagno,
lungo il claustrofobico corridoio. Un odore che riusciva a materializzare il
concetto di tempo nelle astrazioni di Salvador Dalì, avrebbe forse sentenziato,
didascalica, la sua prima amata altrove attratta, della scuola superiore! O, in
una immagine d'innocente teppismo, come i verdi cestini dei rifiuti in cui
depositavano petardi, lui ed altri occasionali complici riluttanti, in serate
lunghe quanto gli anni Ottanta dei monastici ritiri, in villaggi montani, per le
giovani promesse della magica sfera, elastica e resistente (due virtù che tutti
loro s'ostinavano a coltivare di giorno – ed altri pure a pregare di notte –
per le loro ancora estranee e misteriose strutture osseo-muscolari).
Quella
mattina era a casa sua, dato che l'incontro maledetto (altro che le maledette
domeniche d'assalti filmici illustrati nei piani del generale per gioco Al
Pacino!), “si giocava in casa”. Quell'incontro, candido più dei piccioni ignari
delle camicie leggere nei primi appuntamenti, che avrebbe finito per riservare
a lui il tiro dal solo punto d'intersezione delle domande passanti tutte di lì
come rette, si disputava infatti nella sua città, ovvero la sua città di
residenza.
Insomma,
“si giocava in casa”, giusto per ricorrere ad una altra formula compendiativa
che, a suo giudizio gratuito e senza gran valore, era tanto infelice quanto,
ironicamente, fortunata, come formula (e magari di ciò avevano, lei come lui,
da essere grati, a sentire gli altri, meri comprimari!)
Si giocava in casa, ma nel senso figurato ('… In senso figurato, in senso
figurato!' – come l'avrebbe sempre fatto scompisciare quella indolente
precisazione semiotica del Pozzetto-Gandhi-Mambelli al gaio Massimo Ranieri ne La
patata bollente: un raro esempio, per un fiero cinefilo mancato, come lui
si piccava d'esser, di pellicola dall'ironia popolare non offensiva
dell'intelligenza del popolo… negli ultimi tempi storici in cui questo
sopravviveva!).
Eppure
la gravità di quell'evento cui al mattino aveva finto di riuscire a prepararsi
– mentre la sua moca se la fischiava incurante e inascoltata proprio come
Angelo, il bidello, nei corridoi della sua prima scuola dell'obbligo alla
obbedienza istituzionale – era gravità troppo opprimente per incombere soltanto a sette (o massimo otto: non si era
ancora lasciato corrompere da modaioli contapassi da polso o da bicipite!)
chilometri di distanza dall'unico suo luogo di riposo e rara pace, anche
interiore. Rarità – accresciuta dall'imminente
scadenza del contratto di locazione, non rinnovabile per via dei
lavori di ristrutturazione vincolanti ex lege – alla quale egli tornava,
pavidamente fedele, con quella consuetudine malinconica con cui si ritrova una
donna voluta per amore e tenuta per affetto, ogni singola sera. Esclusi i
doveri della trasferta (non alibi, nel suo caso), proprio ogni singola sera
degli ultimi quattro anni di permanenza in una città strana, tentacolare e
degradata come tutte le megalopoli moderne più rispettabili, eppure consumata
da nostalgica vecchiezza tipica delle ormai obliate provincie rurali. Ormai,
però, non contava più molto il frustrato disappunto per quella iniqua distanza
tra le sue due piccole patrie di mercenario, la casa e lo stadio: se la
fiammella mattutina che già aveva iniziato a farsi demiurgo del manico della
caffettiera, fosse rimasta ad ardere… allora avrebbe potuto (dovuto? voluto?)
anche spengersi, insieme con le esistenze – oh, che lisa immagine poetica! – di
chissà quanti dei suoi bei giovani condomini, fiduciosi nel futuro come solo
chi, sin dalla nascita, non ha avuto neppure da chiedere; eppure forse non così
colpevoli quanto i parenti, genitori o amanti, da cui avevano ottenuto
quell'agiata rendita sempre più tediata.
Non
gli era nemmeno mai piaciuto, 'sto caffè! Tranne forse che per quel
rassicurante sapore di consuetudine e d'onesta
rassegnazione quotidiana che gli proveniva, arricchendone l'aroma,
dall'accidentale congiuntura che l'aveva portato ad essere
così diffuso nel suo paese d'origine, quanto l'assenza di
ogni generale vocazione al tragico. Nemmeno suo padre l'aveva mai gradito, né
trovato necessario: anche per ciò, si disse, era sempre stato tanto solo da
lasciarne l'involontario esempio al suo solo figlio.
E
pensare che la volontà meccanica di un utensile, artefice catartico dei tragici
destini altrui, niente avrebbe potuto se lui non avesse lasciato, nella
distrazione più imperdonabile poiché generata dalla vana cura del sé, quel
vuoto della sua volontà cui esso avrebbe potuto così sostituire la propria,
riempiendo un vuoto come quello che separava adesso lui, quella sfera, e tutto
ciò che gli stava di fronte, dalla sorte di altrettanti passivi destini altrui.
Si ripetè, troppo tardi anche per ritenerlo migliore che mai, che sono così
rari i momenti in cui la nostra volontà può qualcosa sia sulla causalità che,
soprattutto, sulla casualità. Son così rari che imperdonabile sarebbe ogni
assenza umana, nella circostanza.
Fu
allora, pervaso da inconsolabile nostalgia per ognuno di quei momenti di cui, nella
vita, si era reso colpevole, quei momenti capaci di riaffiorare uno per uno
sino all'ultimo potenziale delitto della sua ultima mattina, che egli trovò la
disperata volontà d'eseguire quel tiro, compiere quell'unico gesto che poteva
ancora nutrire – negli altri, non più in lui – l'illusione razionalistica sul
ruolo dell'uomo. Quel gesto che avrebbe presto colmato il solo vuoto
illogicamente non temuto, forse perché rimasto alla umana ragione ignoto: il
vuoto che accoglie il boato.
A
Gianni Mura
che,
senza saperlo, m'ha sfidato
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