3.2.11

 COME IN UN ROMANZO

Non ricordo quasi niente di quel giorno. Vorrei, per raccontare come custodire la mia vita.
Ma non mi resta che quel treno nel dopopranzo, quell’unica valigia a tirarmi il braccio, quei soldi accettati da mia madre con colpevole speranza di restituirli. Non resta che un treno, una valigia, dei soldi: niente che sciogliesse o sciolga qualcosa nel petto. 
Parte del niente che mi lasciavo dietro quel giorno.

Una domenica di fine agosto, quattro anni fa. Un tempo che avrebbe dovuto indurirmi dentro e fuori, fermare le emozioni prima che arrivino ad urtare il guscio interiore. Invece spaventa più adesso, nel ricordo, quel posto in cui mi attendeva un lavoro preso sulla parola, un solo potenziale amico, un passato che da poco non faceva più tremare. Melodramma di un amore finito male, più semplicemente finito. Un amore banale. Un sogno usato, mi ripetevo banalmente, tremante.

Gli altri andavano a Bologna a studiare, io ci andavo laureato. Loro tra bevute gucciniane, io tra ronde di Cofferati. Ma in fondo nemmeno questo ci distingueva. Arrivavo, in ritardo, per il loro stesso motivo: non farcela più in provincia ma non farcela ancora, forse mai, in una metropoli. Tutti nell’acquario dell’utopia. Acqua tiepida, immobile di nostalgia. 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

vabbè dai, bologna mica è una metropoli.

cy

che una volta prese il bloggaro (diciamo sfinito...) da sotto i portici e lo trascinò fino su in casa

Anonimo ha detto...

Ma infatti parlavo di Bologna come di rifugio per chi non ce la fa, come me, a misurarsi con la metropoli. Comunque il tuo misunderstanding mi è stato utile per rivedere la mia prosa forse ambigua.

Sor che era effettivamente sfinito, ma che pur ricordando poco non dimentica le braccia amiche