1.5.12

MIO PRIMO, ULTIMO MAGGIO

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile
...”

Questa volta ho rinunciato: le mie poche parole lasciate chiuse nell'anacronismo d'un tascapane male indossato. Questa volta mi sono forzato: su quei pochi passi tra un palco ormai vuoto ed un parcheggio stancamente affollato. Questa volta è stato De André con il suo Brassens che mi ha ispirato, finché da un sogno non amaro né spietato sono stato compensato. Il sogno di te, in una notte di parole per voce fraterna, dentro occhi d'una trasparenza che non poteva saper mentire meglio del disincanto d'un mio intuire. Una notte di umanità inspiegabile in me che un giorno dopo l'altro, in metodica devozione, alle spalle l'ho abbandonata.
Poi l'addio che la mia stessa nostalgia riusciva a credere un arrivederci: nell'alba in cui sentivo, senza timore, ciò che di universale ha l'amore; quell'alba ancora buia che prima di questo risveglio da me ti portava via: come il solo mio Pier Paolo prima di te, come in un romanzo, come forse anche tu ricordi.
Nella memoria - ormai indimenticati, mi dicevo - il calore d'un abbraccio nel tuo sorriso, la promessa nelle tue parole che infine prendevano con sé i miei versi e, insieme, il meglio di me, chiamato con quel nome che mi hanno dato ma poi così poco usato: 'Alessandro, non credo proprio tu abbia conti aperti di dimestichezza con la lingua italiana. Forse il problema è solo che pensi troppo.' - un'imperdonabile ovvietà, avrei detto, non fosse stato per la sua profonda, intima onestà. Alla luce della quale, come, dunque, poter meritare il tuo soave non tradire alcuna nauseata compassione verso quell'incallito servilismo, mio solo ereditario automatismo di famigliare educazione?


Vi osservavo, giovani,
senza sentire il bisogno
di richiamare quei miei vent'anni,
quella più ambita piazza italiana
colma d'un aspro rosso tiepido,
dolce sterco d'hashish frenetico,
tra spinte incuranti di donne già fatte,
spallate perentorie di uomini già mancati,
sino ai margini del vostro festoso ringhiare,
del mio funebre carnaio:
dove poter guadagnare
il primo vuoto, ignoto viale di Capitale.

Vi invidiavo, giovani,
poiché nulla rimpiangeva
quella mia atavica fame di gioventù:
vi osservavo e nulla, di voi tutti, mi mancava.
Non uno tra voi trovavo
che fosse allegro, se non nelle risa d'isteria,
non uno spontaneo compativo,
perché neanche in quei cori 
di unisoni obbligatori,
un sincero impaccio io avvertivo.

Nell'eco sorda d'orecchi chiusi, timore
di non sentir più, come il cuore 
nel retrogusto amaro 
di matura delusione, 
invecchiata rassegnazione, 
al fondo d'ogni dolore. 
Dove non uno solo vedevo,
in nessuno riconoscevo
la sola perduta nostalgia
della mia giovane, clandestina malinconia.

30/4/2012


A Pier Paolo Capovilla,
perché nella sua grazia non m'inganni,
ed anche il suo nome
serbi una mitezza che è predestinazione:
scandalo perduto di cristiana violenza.



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