MIO
PRIMO, ULTIMO MAGGIO
“Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...”
“Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile...”
Questa
volta ho rinunciato: le mie poche parole lasciate chiuse
nell'anacronismo d'un
tascapane male indossato. Questa volta mi sono
forzato: su quei pochi passi tra un palco ormai vuoto ed un
parcheggio stancamente affollato. Questa volta è stato De André con
il suo Brassens che mi ha ispirato, finché da un sogno non amaro
né spietato sono stato compensato. Il sogno di te, in una notte di
parole per voce fraterna, dentro occhi d'una
trasparenza che non poteva saper mentire meglio del disincanto d'un
mio intuire. Una notte di umanità inspiegabile in
me che un giorno dopo l'altro, in metodica devozione, alle spalle
l'ho abbandonata.
Poi
l'addio che la mia stessa nostalgia riusciva a credere un
arrivederci: nell'alba in cui
sentivo, senza
timore, ciò che di
universale ha l'amore; quell'alba ancora buia che
prima di questo risveglio da me ti portava via: come il solo mio Pier
Paolo prima di te, come in un romanzo,
come forse anche tu ricordi.
Nella
memoria - ormai indimenticati, mi dicevo - il calore d'un
abbraccio nel tuo sorriso, la promessa nelle tue parole che infine
prendevano con sé i miei versi e, insieme, il meglio di me, chiamato
con quel nome che mi hanno dato ma poi
così poco usato: 'Alessandro,
non credo proprio tu abbia conti aperti di
dimestichezza con la lingua italiana. Forse il problema è solo che
pensi troppo.' - un'imperdonabile
ovvietà, avrei detto, non fosse stato per la sua profonda, intima
onestà. Alla luce della
quale, come, dunque,
poter
meritare il tuo soave non tradire alcuna nauseata
compassione verso quell'incallito servilismo, mio solo ereditario
automatismo di famigliare educazione?
Vi
osservavo, giovani,
senza
sentire il bisogno
di
richiamare quei miei vent'anni,
quella
più ambita piazza italiana
colma
d'un aspro rosso tiepido,
dolce
sterco d'hashish frenetico,
tra
spinte incuranti di donne già fatte,
spallate
perentorie di uomini già mancati,
sino
ai margini del vostro festoso ringhiare,
del
mio funebre carnaio:
dove
poter guadagnare
il
primo vuoto, ignoto viale di Capitale.
Vi
invidiavo, giovani,
poiché
nulla rimpiangeva
quella
mia atavica fame di gioventù:
vi
osservavo e nulla, di voi tutti, mi mancava.
Non
uno tra voi trovavo
che
fosse allegro, se non nelle risa d'isteria,
non
uno spontaneo compativo,
perché
neanche in quei cori
di unisoni obbligatori,
un sincero impaccio io avvertivo.
di unisoni obbligatori,
un sincero impaccio io avvertivo.
Nell'eco
sorda d'orecchi chiusi, timore
di
non sentir più, come il cuore
nel retrogusto amaro
di matura delusione,
invecchiata rassegnazione,
al fondo d'ogni dolore.
Dove non uno solo vedevo,
nel retrogusto amaro
di matura delusione,
invecchiata rassegnazione,
al fondo d'ogni dolore.
Dove non uno solo vedevo,
in
nessuno riconoscevo
la
sola perduta nostalgia
della
mia giovane, clandestina malinconia.
30/4/2012
A
Pier Paolo Capovilla,
perché
nella sua grazia non m'inganni,
ed
anche il suo nome
serbi
una mitezza che è predestinazione:
scandalo
perduto di cristiana violenza.
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