23.4.12

I BELLI E I DANNATI

Il mio primo porno fu cartaceo: pesanti pagine stremate di gualciture, schiuse con polsi e ginocchia tremanti durante una ricreazione scolastica. Comprato, per quel che ne sapevo, di seconda mano dallo studente dell’ultimo anno, un tal Vignolo, che ce lo aveva mostrato nel bagno della scuola media: a far da intermediario, dietro compenso di qualche giorno di usufrutto, un mio compagno di classe con il quale, già da qualche tempo, avevamo iniziato a masturbarci seduti accanto, nel buio della sua cantina, sino ad arrivare a fellationes tanto frenetiche ed ansiose da consumarle incautamente finanche dietro ad un albero a pochi metri dal resto del gruppo, di catechismo o di classe. Quel mio primo porno finii anche per portarmelo nascosto nei pantaloni della tuta durante una messa, causa una mancata consegna a quel mio compagno che, non seppi mai se per il mio stesso timore religioso o per gratuita crudeltà ludica, rifiutò all’ultimo di prenderselo durante quella giornata di preghiera organizzata dal corso per la cresima. Ricordo, non solo con la mente, che la rivista era Caballero - la cercai invano pochi anni dopo nelle edicole della stazione centrale, fino a sentirla ricordare distrattamente, senza pietas apparente, in una canzone dei Massimo Volume - mentre il titolo dell’episodio che quel Vignolo ci aveva mostrato era ‘Di solito svesto Maria’. Quel nome, benché inventato (riusciva a capirlo anche la mia sprovvedutezza sovraeccitata), nella purezza profanata che irresistibilmente evocava (non solo della madre di Gesù ma anche di una immaginaria adolescente timida quanto procace: occhiali da vista tondi e leggera vestina a fiori) fu un contributo essenziale ai miei fertili sensi di colpa, embrionali nevrosi fecondate dalla morale cattolica e piccolo borghese d’appartenenza. Tra gli indelebili particolari di quella Maria, il suo seno grande come mai in seguito mi capitò di incontrare, se non con lo sguardo, le ingenue scarpette di tela bianche come le corte calze di spugna, un viso giovane che mi piaceva collocare appena oltre la soglia della maggiore età (mi era giunta voce anche delle leggi in vigore) ma che risultava ancor più ingenuo nel sapiente contrasto con la perentoria, inequivocabile villosità virile del suo compagno, il cui indiscutibile distacco professionale era altresì corroborato, qualora ce ne fosse stato bisogno, da un paio di occhiali a goccia fumé; lui che, stando alle magre didascalie narrative, si incaricava periodicamente di svestirla, fare ciò che andava fatto, come da eloquenti immagini, sino a premiarsi per l’apparente fatica leccando con gusto “un filo di sugo vaginale”- unico riferimento, quest’ultimo, che per lungo tempo mi rimase ambiguo, nell'inappuntabile didascalicità d’insieme, e che risolsi come di consueto appellandomi alla fantasia (particolarmente vivace nelle sue declinazioni più lubriche), piuttosto che a presunte quanto presuntuose nozioni altrui: mi risolsi che doveva esser sangue, dovuto alla rudezza della penetrazione, ulteriore conferma della soave purezza ancora adolescenziale di lei, almeno a confronto con l’ormai incurabile incuranza adulta di lui. Pochi giorni dopo questa inattesa, eccitante rievocazione di emozioni risalenti a circa vent’anni fa, ho appreso con amarezza che tuttavia non mi strappa ancora preoccupazione, esser patologico - se lo dice la televisione… - conservarsi dettagli così accurati della mercificazione di corpi e di impulsi da cui, in assenza di persone, parole, esperienza vere, si è stati svezzati e, insieme, condannati.
Oggi, almeno razionalmente libero da ogni fede confessionale, io credo solo, fermamente, che la colpevolizzazione intrinseca ad ogni morale dominante, direttamente proporzionale, in efficacia, alla sua capacità mimetica soggiacente - una morale sfaccettata, alla sua ancora inscalfibile ipocrisia commisurata - unita all’edonistico imperativo di aver bellezza, se non potere, per poter ambire a qualsiasi piacere, abbia portato i coiti di molti di noi (quei miserabili coiti che non sono altro da un momentaneo allontanamento della tensione che ci tiranneggia l’inguine e tutto ciò che da esso prende ordini) a dipendere dall’accantonamento della coscienza di sé, per una raffigurazione di ciò che si è, modellata poveramente su un pornoattore, un passante, un amico avvenente; anche laddove non fossero rintracciabili espliciti impedimenti esterni, sarebbe comunque decisiva l'interna autoesclusione di chi vede ormai se stesso come inadeguato e dunque, con pudica nevrosi, all'estraneità al godere rassegnato.
Per provare a spiegare - non certo a giustificare - quella che potrebbe facilmente venir interpretata, e liquidata, come supponenza, aggiungo solo, in conclusione, il seguente spunto di ulteriore riflessione. Nel vivere in sé stessi e nella propria esistenza un simile dramma "globale", c'è un innegabile vantaggio, quasi una benedizione, consistente nell'osservazione da un illuminato angolo visuale, che è pagato, cogentemente ed anticipatamente, con un'altrettanto puntuale maledizione (eufemisticamente potrei dire svantaggio): quella, capillarmente, vitale. 
Tutto ciò mentre Gesù, credo, continui a piangere, e i figli prediletti di quest’estremo regime, so, isterici ghignare. 

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