22.4.12

GIOVANI

"Ma io non ci sto più! E i pazzi siete voi!"


A chi volesse, senza opportunistica faziosità retorica, compromettersi per ventura in un discorso intorno ai giovani nell’Italia attuale, si parerebbe dinanzi un impaccio preliminare non indifferente, quando non paralizzante. Con riguardo - capolavoro di “discriminazione dolce” - ai soli paesi di capitalismo maturo (decrepito, rettificherei con licenza socioeconomica parlando), l’inetto alibi del prolungato corso vitale medio ha difatti teso sino alla deformazione il concetto di giovinezza, svuotandolo e mortificandolo ai limiti di un grottesco degno di quello strutturalmente complessivo: maraviglioso paradosso barocco, consono alla nostra tradizione, per cui d’un tratto sembrano tornati tutti giovani nella nazione dalla più vecchia popolazione! Qui può esser giovane, così, un trentenne che ancora cerchi, ove non abbia desistito estenuato, la sua prima occupazione, vedendosi altresì negato finanche l’onore delle cronache statistiche, alle quali non sembra granché interessare questa montante forma di morte sociale. Giovane, a fortiori, è d’ufficio archiviato un regista o uno scrittore che si vedano portare alla luce da qualche produttore o editore illuminato, un’opera prima magari concepita un decennio prima. Altro funambolismo concettuale per arrivare a giovani donne, per istinto più risolute e protettive, condurre per mano i propri spaesati compagni a distanza di disperata prudenza dallo spettro di un’incombente età di compromessa fertilità. Donne che così s’affannano - belle quanto le umanistiche speranze ricacciate nello stesso cassetto di sudate lauree lodate - a rimpinguare le file dei complici sfruttati in sempre più evanescenti impieghi di concetto, concepiti ormai per non esistere se non con lo scopo, ben calcolato, di ingrassarne custodi ed ideatori. Basti, anzi basterebbe, utopicamente, a qualsiasi sociologo o economista - in collegamento da un qualche altrove, sempre - varcar la porta di un’agenzia per il lavoro, ad impallidire e, intuitivi e sensibili come li figuro, senza indugio capire cosa io tanto mi sforzi a definire. Donne circumnaviganti la boa dei trent’anni, offrendo in dolente contrappasso un collo, nel mento non ancora sfumato, allo strozzinaggio legale di mutui a tasso agevolato: vibrando d’indignato livore quando la pavidità d’un istituto di credito le rifiuti come debitore, recidendo per apparente capriccio il fiduciario patto perverso con il mondo della produzione. Dovunque passi la questua dei finanziamenti - banche, famiglie, delinquenza tradizionale - sarà sufficiente a questi giovani non languire in una dickensiana condizione d’orfani per potersi garantire l’appoggio incondizionato dei nonni - incondizionato e strettamente materiale, ché quei figli sanno loro, che han studiato, come dover educare! Nonni, altra categoria snaturata da una violenza ormai morbidamente normalizzata, in un harakiri perpetrato da quella stessa generazione che fu popolo eletto dell’inedita, irripetibile stagione di ruminanti grasse e liberale emancipazione di piccolo borghesi masse: tosto incespicata nella puntuale illusione di poterla eternizzare. Così, in un raffazzonato revisionismo della “favola bella” alla loro prole propinata, sembrano adesso chieder venia disperata, genuflessi da buoni cristiani italiani: venia per colpe naturalmente d’altri, meglio se lontani e potenti, giammai di loro stessi. Volendo tuttavia sinceramente rimediare, offrono ai nascituri della prole due genitori di seconda mano, certo, ma come non se ne fan più: almeno da quando l’infanzia non si accontenta della sola tv! L’unica, estrema soddisfazione che questi nonni di ultima generazione chiedono, ora timidamente chini ora moralmente ricattatori - due speculari declinazioni (Gobetti docet) del miglior costume nazionale - ai loro figli-genitori, è vederli sposare: non certo da un bigio facente funzioni statale, ma su uno scenografico altare, e delle spese che non si stian a preoccupare! Perché la prima, irrinunciabile soddisfazione, quella che vorrebbe ricordarsi ogni genitore, ben più che un figlio dottore (in fondo, quando c’è la salute, che ci metta pure qualche anno di fuori corso per capire che non vuol più studiare!), è piangere un poco in chiesa, come in quella canzone popolare. Tra incenso, fiori, parenti: tutti incuranti che il venefico prosecco dell’erotico di lui addio al celibato o il benedetto, in fondo, frutto del di lei peccato, tendano impietosi candide stoffe e lustri bottoni: presagio di ereditarie croci da portare come il Cristo ci insegnò a fare.

“Ogni diritto è crudele, ed essi, esercitando il proprio diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l’innocenza della vita. Così la conoscenza del male e del bene - la storia, che non è né lieta né innocente - si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà.”

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