14.2.12

DELLE CICATRICI

“Ride delle cicatrici, chi non ha mai provato una ferita.”

Alla nostra barba
che ricorderebbero suadente
nella sua discreta riflessiva incuranza.
Alla nostra pelle
che rimpiangerebbero toccante
nell’esausta perentorietà
di reduci ormai apolidi
sopravvissuti ad un’adolescenza
mutilata della sua unica dignità.

A te, gemello nel controllo,
che sfiorando riconoscerebbero
se dita sole in mani attente
di rara femminilità dolente
provassero ad intuirvi
quel retrogusto ancora sconosciuto
di un percorso mai compiuto.

Ai non so come tanti
che disprezzarci crederanno
con l’unica forza che scopriranno
non avere né poter acquistare,
poiché muove chi viene dalla fame.
Chi uno specchio quotidiano
continua a fronteggiare,
e non per ordinargli rassicurazione
della propria carnale elezione.

Ai molti qui davanti
persuasi di servirsi del piacere
come strumento, uno fra i tanti,
del loro ereditario potere.
Con la bestiale naturalezza
di atleti prodigio nei bordelli
a godere soltanto della propria bellezza.

Malinconiche maestà lese
sotto il grigio diluvio estetico
di sinuose falde tese.
Estrema unzione
dei loro scranni d’aule, biblioteche,
di quella formidabile età
in cui spalle perfettamente gracili
gli imprestammo per comiche crudeltà.

Fonte battesimale
nell’argine friabile delle parole
che come noi allora
tentano d’opporre, ora,
al corso irrazionale
che il sangue nero continua a tracciare.
Portando con sé il segreto
di quello che io e te siamo:
fino in fondo gli stessi
che una volta, mai morta, eravamo.


All’unica matrice d’ogni cicatrice
ed a C. che può capirmi, forse,
più di quanto io gli chieda


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