11.5.11

LE ORE GETTATE DELLA MIA GENERAZIONE

Allora avevano un come, un dove, la nostra colpa ed espiazione.
Erano come figli. I figli che alcuni di noi, domani, avrebbero avuto:
corpo estraneo ma reale
a cui dare nome, ancora sconosciuto.

C'era un rituale, come in ogni iniziazione.
Nel primo sguardo posato, fatalmente indugiato
su quei corpi, la loro superficie
cui ci avevano condannato.
Nella prima processione da imploranti, penitenti
che ognuno, poi, avrebbe proseguito solo:
verso i SerT, le aule universitarie, i Centri per il lavoro.

Ma allora sembravamo ancora uguali, uniti
in quell'odore stantio, miseramente inebriante
di tendine, penombra di un'edicola compiacente.
Tremavano le dita - di vergogna, fame
a scegliere, credendo di poterlo fare;
a pagare, quanto non potevano immaginare.  
Tremavano le gambe, furia meccanica
di marionette allineate, pronte ad essere svuotate.

Poi, nella solitudine che attende in fondo al coito, paziente,
quei corpi irreali, di carne patinata, fredda, imbalsamata
Via, gettati, con altra furia di svuotarsi occhi, mani, coscienza
d'un disagio colpevole, in cui ci avevano battezzato con il nome di Peccato.

Quei corpi che alcuni di noi, presto, avrebbero rinnegato
in un tepore smagliato così diverso da quanto immaginato.
Per altri, quelle Ore forse dimenticate con qualche sirena ancor più evanescente
- nella sua falsa glabrezza innocente, nel suo negarsi a connessioni lente.
E come quelle d'Olanda, allora,
mute alle finestre
dei nuovi mondi portatili, adesso, queste.

Nessun corpo né nome da dare.
Nessuna colpa né redenzione in cui sperare.
Niente da stringere né da scacciare,
queste mani
vuote come il nostro domani.

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