5.12.11

IL BASTONE DEL PADRONE
  
Abito in una vecchia casa infestata 
d'untuosi fuoricorso fetidi come squittii di roditori.
Abito in quella casa ma mi ripeto di non esserci:
perché ho bisogno, per restarci, di pensarmi altrove
perché, filosoficamente, il mio non potrebbe dirsi essere.
Né per il mio padrone di casa, che pago sempre al nero
né per il mio padrone di lavoro, che quando può al nero mi paga:
io non esisto per loro, non devo esistere nell’unico mondo possibile,
il mondo del lavoro. Se un giorno per disgrazia salterò in aria 
o volerò al suolo, per un giorno esisterà il mio nome.
Ed ormai mi inquieta più questa vecchia caldaia
ronzante come le mosche estive in cucina
che quegli orchi di metallo ghiotti di falangi nell’officina.
Questa mattina, chiedendomi ancora se lavarmi e perché,
fissavo il rigagnolo tiepido del rubinetto dove
il tisico impianto non arrivava più a pompare con quel vecchio ardore.
Quel timido ma insistente filo trasparente
mi fece pensare all’anziano pene convesso del padrone:
stremato finanche nell’amor proprio,
piegato ma ancora, fino in fondo, arrogante.

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