13.12.11

I MIEI CAFONI

Arrivano negli atenei
da estreme periferie geografiche o culturali
gonfie d'opulenza della più venefica,
d'istituti professionali, licei fantasiosi o ginnasi decaduti
intrisi di docenti pavidi, professò menefreghisti,
compagne dolenti come mogli di camorristi,
compagni feroci come figli di scafisti:
orgoglio di padri commercianti o liberi professionisti.
Li riconosco dai loro abiti offensivamente costosi
nel cattivo gusto o nel trasandato più artificioso,
più spinti dal perfido capriccio annoiato di un qualche nome stampato.
Sembrano capaci solo di smaniare, mai di soffrire: neanche il freddo,
sfoggiando ultime magliette e tatuaggi senza soluzione di stagione,

ardendo d'ormoni, postumi di cocaina, traditi riflessi d'estrazione contadina
ormai indistinguibili nel benessere bruciato in ogni bilocale surriscaldato. 
Li osservo sfilare ciondolanti, in pose da indossatori ridotti a figuranti,
su gambe ipertrofiche di trequartisti mancati, gambe incapaci di posa
quanto le labbra lucide e carnose di maschia ibrida rosa
nel seguire il filo ingenuo e fragile dei pensieri
dagli occhi rapiti nel laptop o smartphone d'ennesima generazione:
finestre spalancate senza timore
sul vuoto dei loro desideri mandati a memoria
o, fatalmente, smarriti e singhiozzanti nei vicoli ciechi della nostra Storia.
Li conosco, non sopravviverebbero ad una mattina senza fumare,
una sera senza telefonare, una notte senza eiaculare,
perché per loro non è che corpo,
nella fiera ubbidienza o solerzia d'allineamento all'imperativo estetico sociale,
nessun tremore di paura, malinconia o pudore,
l'odore, prima ancora della vista, di questo mare.
Un mare nero affogato,
ferito, per sempre imprigionato
come i loro occhi che mai saprebbero fermarsi a piangere, ricordare,
anche solo immaginare.

Ma più che vederli come sono,
forse sono io che li voglio immmaginare:

perché, in qualcosa diverso da loro, io non dimentico il timore.

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