12.12.11

L'ALBA DEI SERVITORI

“La festa appena cominciata è già finita.”


 
Com'era quieta...
l'avremmo ricordata così 
fragile, inoffensiva quanto una bambina.
Soltanto noi, i nostri occhi bassi di pudore
tra qualche ultima gualcita divisa 
ormai corta su polsi stremati tra flûtes non finiti,
smarriti lungo selciati umidi, appena lustrati...
Milano quella prima mattina.
Io e te, le tempie libere dalla prigione d'alcool,
gli occhi vuoti di luci, le orecchie sorde
al rumore più di grido, più disperato,
per poter cercare, ancora, l'eco di quel “vecchio boato”
e continuare a camminare, parlando fino alla fine
di quel 31 dicembre
dove tentavamo di non guardare l'inizio di quell'anno
che sarebbe seguito, per non vedere che il buio 
delle nostre solitudini.
Così come a quel 12 dicembre
chiedevamo di non dimenticare il nostro paese
mai nato, insieme agli anni che avrebbe generato.
Dove ci avrebbero messo al mondo, condannato
con l'ostinazione che appartiene al coraggio come all'incoscienza...
Fino a scoprirla così minuta, dimessa e composta,
alle spalle del Duomo e tutto ciò che sempre resta da bere,
quasi nascosta piazza Fontana,
ai nostri ricordi di nostalgici provinciali,
dai nostri libri usati di demodé sociali, apparve umile e fedele,
anonima come un servitore di dicasteri, come un anziano, ormai curvo cameriere
cui si ordina d'istinto, senza guardare, in ogni compassato salone del Potere.


Ad Enri,
in tutte le cose che non gli ho detto
e che ancora non ho compres
o

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