23.4.12

I BELLI E I DANNATI

Il mio primo porno fu cartaceo: pesanti pagine stremate di gualciture, schiuse con polsi e ginocchia tremanti durante una ricreazione scolastica. Comprato, per quel che ne sapevo, di seconda mano dallo studente dell’ultimo anno, un tal Vignolo, che ce lo aveva mostrato nel bagno della scuola media: a far da intermediario, dietro compenso di qualche giorno di usufrutto, un mio compagno di classe con il quale, già da qualche tempo, avevamo iniziato a masturbarci seduti accanto, nel buio della sua cantina, sino ad arrivare a fellationes tanto frenetiche ed ansiose da consumarle incautamente finanche dietro ad un albero a pochi metri dal resto del gruppo, di catechismo o di classe. Quel mio primo porno finii anche per portarmelo nascosto nei pantaloni della tuta durante una messa, causa una mancata consegna a quel mio compagno che, non seppi mai se per il mio stesso timore religioso o per gratuita crudeltà ludica, rifiutò all’ultimo di prenderselo durante quella giornata di preghiera organizzata dal corso per la cresima. Ricordo, non solo con la mente, che la rivista era Caballero - la cercai invano pochi anni dopo nelle edicole della stazione centrale, fino a sentirla ricordare distrattamente, senza pietas apparente, in una canzone dei Massimo Volume - mentre il titolo dell’episodio che quel Vignolo ci aveva mostrato era ‘Di solito svesto Maria’. Quel nome, benché inventato (riusciva a capirlo anche la mia sprovvedutezza sovraeccitata), nella purezza profanata che irresistibilmente evocava (non solo della madre di Gesù ma anche di una immaginaria adolescente timida quanto procace: occhiali da vista tondi e leggera vestina a fiori) fu un contributo essenziale ai miei fertili sensi di colpa, embrionali nevrosi fecondate dalla morale cattolica e piccolo borghese d’appartenenza. Tra gli indelebili particolari di quella Maria, il suo seno grande come mai in seguito mi capitò di incontrare, se non con lo sguardo, le ingenue scarpette di tela bianche come le corte calze di spugna, un viso giovane che mi piaceva collocare appena oltre la soglia della maggiore età (mi era giunta voce anche delle leggi in vigore) ma che risultava ancor più ingenuo nel sapiente contrasto con la perentoria, inequivocabile villosità virile del suo compagno, il cui indiscutibile distacco professionale era altresì corroborato, qualora ce ne fosse stato bisogno, da un paio di occhiali a goccia fumé; lui che, stando alle magre didascalie narrative, si incaricava periodicamente di svestirla, fare ciò che andava fatto, come da eloquenti immagini, sino a premiarsi per l’apparente fatica leccando con gusto “un filo di sugo vaginale”- unico riferimento, quest’ultimo, che per lungo tempo mi rimase ambiguo, nell'inappuntabile didascalicità d’insieme, e che risolsi come di consueto appellandomi alla fantasia (particolarmente vivace nelle sue declinazioni più lubriche), piuttosto che a presunte quanto presuntuose nozioni altrui: mi risolsi che doveva esser sangue, dovuto alla rudezza della penetrazione, ulteriore conferma della soave purezza ancora adolescenziale di lei, almeno a confronto con l’ormai incurabile incuranza adulta di lui. Pochi giorni dopo questa inattesa, eccitante rievocazione di emozioni risalenti a circa vent’anni fa, ho appreso con amarezza che tuttavia non mi strappa ancora preoccupazione, esser patologico - se lo dice la televisione… - conservarsi dettagli così accurati della mercificazione di corpi e di impulsi da cui, in assenza di persone, parole, esperienza vere, si è stati svezzati e, insieme, condannati.
Oggi, almeno razionalmente libero da ogni fede confessionale, io credo solo, fermamente, che la colpevolizzazione intrinseca ad ogni morale dominante, direttamente proporzionale, in efficacia, alla sua capacità mimetica soggiacente - una morale sfaccettata, alla sua ancora inscalfibile ipocrisia commisurata - unita all’edonistico imperativo di aver bellezza, se non potere, per poter ambire a qualsiasi piacere, abbia portato i coiti di molti di noi (quei miserabili coiti che non sono altro da un momentaneo allontanamento della tensione che ci tiranneggia l’inguine e tutto ciò che da esso prende ordini) a dipendere dall’accantonamento della coscienza di sé, per una raffigurazione di ciò che si è, modellata poveramente su un pornoattore, un passante, un amico avvenente; anche laddove non fossero rintracciabili espliciti impedimenti esterni, sarebbe comunque decisiva l'interna autoesclusione di chi vede ormai se stesso come inadeguato e dunque, con pudica nevrosi, all'estraneità al godere rassegnato.
Per provare a spiegare - non certo a giustificare - quella che potrebbe facilmente venir interpretata, e liquidata, come supponenza, aggiungo solo, in conclusione, il seguente spunto di ulteriore riflessione. Nel vivere in sé stessi e nella propria esistenza un simile dramma "globale", c'è un innegabile vantaggio, quasi una benedizione, consistente nell'osservazione da un illuminato angolo visuale, che è pagato, cogentemente ed anticipatamente, con un'altrettanto puntuale maledizione (eufemisticamente potrei dire svantaggio): quella, capillarmente, vitale. 
Tutto ciò mentre Gesù, credo, continui a piangere, e i figli prediletti di quest’estremo regime, so, isterici ghignare. 

22.4.12

GIOVANI

"Ma io non ci sto più! E i pazzi siete voi!"


A chi volesse, senza opportunistica faziosità retorica, compromettersi per ventura in un discorso intorno ai giovani nell’Italia attuale, si parerebbe dinanzi un impaccio preliminare non indifferente, quando non paralizzante. Con riguardo - capolavoro di “discriminazione dolce” - ai soli paesi di capitalismo maturo (decrepito, rettificherei con licenza socioeconomica parlando), l’inetto alibi del prolungato corso vitale medio ha difatti teso sino alla deformazione il concetto di giovinezza, svuotandolo e mortificandolo ai limiti di un grottesco degno di quello strutturalmente complessivo: maraviglioso paradosso barocco, consono alla nostra tradizione, per cui d’un tratto sembrano tornati tutti giovani nella nazione dalla più vecchia popolazione! Qui può esser giovane, così, un trentenne che ancora cerchi, ove non abbia desistito estenuato, la sua prima occupazione, vedendosi altresì negato finanche l’onore delle cronache statistiche, alle quali non sembra granché interessare questa montante forma di morte sociale. Giovane, a fortiori, è d’ufficio archiviato un regista o uno scrittore che si vedano portare alla luce da qualche produttore o editore illuminato, un’opera prima magari concepita un decennio prima. Altro funambolismo concettuale per arrivare a giovani donne, per istinto più risolute e protettive, condurre per mano i propri spaesati compagni a distanza di disperata prudenza dallo spettro di un’incombente età di compromessa fertilità. Donne che così s’affannano - belle quanto le umanistiche speranze ricacciate nello stesso cassetto di sudate lauree lodate - a rimpinguare le file dei complici sfruttati in sempre più evanescenti impieghi di concetto, concepiti ormai per non esistere se non con lo scopo, ben calcolato, di ingrassarne custodi ed ideatori. Basti, anzi basterebbe, utopicamente, a qualsiasi sociologo o economista - in collegamento da un qualche altrove, sempre - varcar la porta di un’agenzia per il lavoro, ad impallidire e, intuitivi e sensibili come li figuro, senza indugio capire cosa io tanto mi sforzi a definire. Donne circumnaviganti la boa dei trent’anni, offrendo in dolente contrappasso un collo, nel mento non ancora sfumato, allo strozzinaggio legale di mutui a tasso agevolato: vibrando d’indignato livore quando la pavidità d’un istituto di credito le rifiuti come debitore, recidendo per apparente capriccio il fiduciario patto perverso con il mondo della produzione. Dovunque passi la questua dei finanziamenti - banche, famiglie, delinquenza tradizionale - sarà sufficiente a questi giovani non languire in una dickensiana condizione d’orfani per potersi garantire l’appoggio incondizionato dei nonni - incondizionato e strettamente materiale, ché quei figli sanno loro, che han studiato, come dover educare! Nonni, altra categoria snaturata da una violenza ormai morbidamente normalizzata, in un harakiri perpetrato da quella stessa generazione che fu popolo eletto dell’inedita, irripetibile stagione di ruminanti grasse e liberale emancipazione di piccolo borghesi masse: tosto incespicata nella puntuale illusione di poterla eternizzare. Così, in un raffazzonato revisionismo della “favola bella” alla loro prole propinata, sembrano adesso chieder venia disperata, genuflessi da buoni cristiani italiani: venia per colpe naturalmente d’altri, meglio se lontani e potenti, giammai di loro stessi. Volendo tuttavia sinceramente rimediare, offrono ai nascituri della prole due genitori di seconda mano, certo, ma come non se ne fan più: almeno da quando l’infanzia non si accontenta della sola tv! L’unica, estrema soddisfazione che questi nonni di ultima generazione chiedono, ora timidamente chini ora moralmente ricattatori - due speculari declinazioni (Gobetti docet) del miglior costume nazionale - ai loro figli-genitori, è vederli sposare: non certo da un bigio facente funzioni statale, ma su uno scenografico altare, e delle spese che non si stian a preoccupare! Perché la prima, irrinunciabile soddisfazione, quella che vorrebbe ricordarsi ogni genitore, ben più che un figlio dottore (in fondo, quando c’è la salute, che ci metta pure qualche anno di fuori corso per capire che non vuol più studiare!), è piangere un poco in chiesa, come in quella canzone popolare. Tra incenso, fiori, parenti: tutti incuranti che il venefico prosecco dell’erotico di lui addio al celibato o il benedetto, in fondo, frutto del di lei peccato, tendano impietosi candide stoffe e lustri bottoni: presagio di ereditarie croci da portare come il Cristo ci insegnò a fare.

“Ogni diritto è crudele, ed essi, esercitando il proprio diritto ad essere ciò che furono i loro padri e le loro madri, non fanno altro che confermare, cari come sono alla vita, la lietezza e l’innocenza della vita. Così la conoscenza del male e del bene - la storia, che non è né lieta né innocente - si trova sempre di fronte a questa spietata smemoratezza di chi vive, alla sua sovrana umiltà.”

21.4.12

GIUDICI POPOLARI


Il padre l’avrebbe voluto scrittore
quanto la madre omosessuale.
Da distanze quotidianamente
guadagnate sempre onestamente,
l’un contro l’altra miseramente armate,
quelle potestà genitoriali si ritrovarono
per una volta ancora alleate
contro la sfida esistenziale che lui, vollero pensare,
non seppe neanche di dover accettare.

Il buon senso, il decoro
che storicamente ammantano
ogni impietoso perentorio
a nome anagrafico Giudizio Sociale.

In un puro candore
d’intima, devota determinazione,
l’avevano ammonito a doverosa diffidenza,
educato al timor moderato della prudenza:
come dallo scherno, la sufficienza
a volerlo preservare, sino alla persecuzione
cui ogni giudice popolare
previdente si preparava
dal vicinato di recente costruzione
come dal primo banco laterale,
un giorno già fissato ad esercitare.

A volerlo custodire come bambino,
il bambino agognato che mai era stato,
quasi fosse ancora in tempo a nascondersi,
lasciando lungo il percorso del suo io
la povere spoglie sembianze
e procurarsi una nuova identità,
assicurarsi rassegnata serenità
di decoroso parastatale anonimato.

20.4.12

NOSTRA CULPA

“Provate pure a credervi assolti, siete lo stesso coinvolti.”



Dopo simili prove di cinema, credo ci sia ancora speranza di mettere a tacere la fideistica invocazione - coerente con la nostra “psicologia miracolistica” - rivolta ad un ineffabile quanto ossessivo concetto, dal vago sapore crociano, di “cinema italiano”. Mi si passi il salto logico, ma mi sovviene quella illuminante chiosa secondo la quale vano sia interrogarsi circa l'essenza dell'amore, quando assai più proficuo sarebbe profondere risorse d'attenzione alla presenza di atti d'amore - forma mentis che, se impiegata in ambito teologico, ci libererebbe con insospettabile tempestività dell'avvilente, sterile interrogativo circa l'esistenza - meglio, la presenza nelle umane vicende - di un dio, quale che sia.
Scusandomi per la prolissità introduttiva, vengo alla pellicola, Diaz. Partendo dalla questione: dinanzi alla realtà - ed a questa realtà, in particolare - ragionare rigidamente di cinema, di sedicente arte più in generale, quanto può valere? Forse i soli che avrebbero il diritto di giudicare sono coloro che questa realtà hanno dovuto subire, mentre i soli che avrebbero il dovere di giudicarsi, coloro che la stessa realtà hanno contribuito a fondare e legittimare.
Ogni altro discorso - a partire dal presente, s'intende - non può che essere un inevitabile accidente.
All'uscita dalla sala ero solo, ma non sarei comunque riuscito a parlare: per una volta senza dolermi, piuttosto benedicendo il mio non aver nulla da dire. Dentro, continuava a rintoccare - cupo come i tonfa abbattuti su ogni corpo a marchiare - 'Questo è lo Stato... Questo il paese in cui sei nato.'
Sulla strada di casa, benché età e casualità mi abbiano fatto imbattere più volte nell'ossimorica compresenza di Autorità ed umanità, benché non proprio nato ieri, dunque, mi sono scoperto a guardare ogni divisa passare, con altri occhi: occhi finalmente veri. Occhi spalancati e colmati da immagini che, sai, non esorcizzerai solo chiedendo al tuo padre interiore di ripetere al te bambino 'Non temere, dimentica, è finzione...'
Auguro a questo film ogni bene, ogni fortuna - esteri, però, dato che in Italia non abbiamo mai saputo che farcene di capolavori (e non credo sia questo il caso) per guardarci dentro, sputare ciò che c'era da sputare, per provare, non da domani ma da oggi, da subito, qualcosa a cambiare.
A proposito di capolavori, fa sorridere amaro che un inarrivabile - non solo artisticamente - in stato di grazia come Volonté e il suo 'Tu non sei un cavallo, tu sei un cittadino democratico!' inculcato ad acqua e sale, non sembri al confronto che candore caricaturale: non certo per responsabilità attoriale ma per “le magnifiche sorti e progressive” della crudeltà del Male.
Dicevo, rammaricandomene sinceramente, non trattarsi di capolavoro - non si è davanti ad un Garage Olimpo, rimanendo in ambito di rare immagini capaci di mordere lo stomaco e rapire il fiato: ciò non tanto con riguardo alla ricostruzione, che ho trovato esaustiva ed equilibrata, ma alla “messa in scena” della narrazione. Questa ha il suo punto di forza, credo, nella creazione di un climax e di una sospensione quasi insostenibili nell'attesa che ciò, che sappiamo essere l'Orrore, si compia - la claustrofobica rassegnazione nel “silenzio degli agnelli” in ascolto, a mani alzate, dei carnefici avvicinarsi, mi sospingeva a lasciar la sala. Indelebile, tutto ciò, più dei ludici accanimenti, fisici e psicologici, sui quali ho trovato opportuno da parte degli autori insistere - piuttosto che “rifugiarsi” nel fuori campo, stilisticamente più disinvolto ma sotto un profilo etico non sempre ottimale - e grazie ai quali sono riuscito a comprendere appieno quel verso di Allen Ginsberg che evoca una “Cecoslovacchia attaccata dai robot” (Kaddish, Nda).
Trovo, per converso, che sarebbero stati evitabili certi didascalismi narrativi: didascalismi sia impiegati a sottolineare la fatalità implacabile dei “sommersi” come dei “salvati” - vedansi la giovanile curiosità dell'anziano, grazioso e tenero ma alquanto (furbescamente?) ridondante, e i due amanti disinvoltamente post-hippie, incolpevolmente (e per questo meno odiosi dei dreamers di Bertolucci) avvolti da Eros, mentre fuori, nel mondo reale, Thanatos è ai loro simili che presenta il conto da pagare; come pure didascalismi addossati sui due nomi di richiamo, Santamaria e Germano: attori indubbiamente valenti, pur nei loro limiti evidenti, ma appunto alquanto sacrificati dalle scelte narrative. Ciò detto, un plauso particolare va al primo dei due per il non così semplice “metterci la faccia” - altro è quando “se pijamo Roma” tra saporite pupe e sventagliate anni Trenta - dietro ad una maschera di nostrana inettitudine, inabile fino in fondo al male come al bene, dunque eternamente plasmabile sino all'agognata autoassoluzione, tra un pensiero alla famiglia - vel Moro dalla Prigione del Popolo, come ricordava la Braghetti cui di ciò, almeno, va dato atto - uno alla carriera, uno al primo bar per la colazione. 'Stavolta avete fatto una cazzata' - ammonisce paterno quel soave anziano: a dimenticare che nella patria della deresponsabilizzazione, dove dietro ad ogni uomo c'è un potenziale mammone, le cazzate si possono fare eccome, poiché reciso ab origine quel nesso eziologico che altrove lega il delitto alla propria punizione - puntuali ce lo rammentano le note finali. Puntuali quanto la ricostruzione della sostanziale gratuità del raid e le successive menzogne ufficiali, a castigare ridendo mores di una generazione che, semplificando brutalmente, è stata condannata dai vuoti di memoria famigliare prima ancora che dai vuoti di civiltà istituzionale.
Come pure è onesto non aver escluso la presenza di manifestanti non pacifici - ignoro volutamente il termine black bloc, che di per sé implicherebbe una parentesi sul ruolo dello Stato a riguardo - e addirittura fare di uno di essi, il ragazzo che fugge via convinto cercassero lui, un personaggio centrale: lui che mi riporta alla mente, in conclusione, con la sua disinvoltura guerrigliera - “sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale)”- tra una bottiglia di birra ed una esplosiva, il commento tempestivo dispensatomi da un allora ventenne volontario di Croce Rossa futuro medico, marito, padre: 'Sì, la polizia ha menato, ma quelli che casino hanno combinato!? Cassonetti in fiamme, rovesciati... macchine, vetrine spaccate...'

Diaz, questo sangue non lavate.

19.4.12

NOSTRA CULPA

“Vivrò l'ordine, la libertà, l'obbedienza...
Vivrò la verità: che è l'ultima, la prima.”


Diaz.
Un morso nello stomaco
a strappar via il fiato,
lasciando l'unico luogo
morale ormai concesso:
il doveroso silenzio
ancora imprescindibile
a che riecheggi
la retorica domanda
'Noi, dov'eravamo?'
nel vuoto incolmabile della sola vergogna
che dalla coscienza non si possa lavare,
dalla carne non si possa raschiare:
la vergogna di essere italiano,
la vergogna di essere umano.

Diaz.
Una madre tra tante, l'agio comprensibile
quanto imperdonabile del suo candore
nel dire 'loro personale Resistenza'
la tragica rappresentazione
di quei giovani orfani, figli dello Stato
e del suo orrore.

Diaz.
Crudele beffa, feroce scherno

in quella teistica coincidenza
di una scuola evocante il Piave
e uno straniero da scacciare
dove patrio rosso sangue,
virato in piombo nazionale,
sfumò secco in nero statale.

18.4.12

QUANDO SARA' TARDI ORMAI


Avrei forse potuto tralasciare
l'umore retrospettivo,
ignorarne l'agrezza confessionale:
ma non vidi mai anima
nel narrare che non muovesse
l'onestà del richiamo personale.

Voglio dunque anch'io
- incurante della fatale sproporzione
tra talento, resa, ed intenzione -
concedermi un lucida illusione
di poter ancora tornare
a quel povero, breve viale
vuoto come domenica ginnasiale.
Sino ad una sala giochi seminterrata
a pochi, incolmabili passi dal grigio mare
estraneo come in ogni autunno
all'ingrata massa migrante d'estate.

Dov'era l'estremo lamento
d'un jukeboxe in pensionamento
a restituire in un'ossessione
le ingenue note amare
di quel Marco così popolare,
prima che la tediata crudeltà
di quei nessuno che mi negavano,
con i miei simili, il solo sfiorare
l'ignoto d'un brivido adolescenziale,
decisero portasse male, bandendone il cantilenare.

Fieramente inconsci
- come in ogni loro pre-potenza -
vollero in realtà censurare
quanto egli seppe raccontare:
non borghesi cloni
di esistenzialismi elettrificati
d'oltreoceano o canale,
ma poveri sguardi d'occhi
che hanno il solo orizzonte
nell'ultimo complesso popolare.

Perché per quanto non vogliano
né possano accettarlo,
anche i cafoni sanno soffrire:
ma non credendo di poterlo fare,
educati a doversene vergognare,
piangono senza darlo a vedere.

In profondità che non sai di avere in te.

17.4.12

MATTINI, CARROZZINI

“Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!”



Cos'è quel calor interiore, essenziale
a tutto questo vostro rinunciare?
Interrogo senza capire, poter sentire
quella fiamma dell'esser madri
e nient'altro più attendere
del maschile umano cercare:
come avesse senso, destinazione
il solo vostro peregrinare.
Vi scalda il petto un tepore
arso altrove, mi sono detto:
poiché istinto e non amore,
sibila il mio sospetto.

15.4.12

MALEDETTI POETI MALEDETTI


Leggo una poesia 
- salvo la rara, necessaria Poesia -
come entro in una Feltrinelli:
quando non ho più forze
per respingere quella seduzione
d'inguaribile masochistica vocazione.

La poesia è in me pura incomprensione,
sfumata nel retrogusto del livore:
incomprensione nata dalla sensazione
che sia scritta per non esser capiti,
compiacendosi della propria incuria
di cosa ci sia mai da capire.

Livore culminante nel constatare
che qualcuno si ostini a pubblicare
- per quanto tristemente offensive
siano molte collane -
questi mai paghi, in eterno lamentare
quanto sia ignorata, temuta, schernita
la poesia fatta della loro vita.

14.4.12

FROCI ERETICI


Non vorrei mi vincesse
questa nausea d’alta quota low cost,
né giungesse a pretesto
e, prima di domani, portasse via
ciò che resta, nel ritorno, della mia nostalgia.

Nostalgia di quella porta chiusa
a tanti chilometri di distanza, ormai,
dalla porta che tante volte hai chiuso
e mai più riaprirai:
sui nostri congedi ansiosi,
sempre troppo distratti, goffi, o cerimoniosi,
per non lasciar le nostre vite andare
là dove, ci hanno persuaso, debbano arrivare.

Per non farci bastare
quanto non sono le circostanze,
come ancora ripetono, a dispensare:
ogni circostanza dietro la quale
la sola ragione - di decisioni prese o accettate -
sembra nascondersi come buia faccia lunare
di ciò che, senza più timore, bestemmiamo come cuore.

Dove, vigliacchi, esigiamo di colmare
quel nostro niente che non sappiamo dimenticare:
lo stesso niente di cui, reciprocamente,
continuiamo a saziarci senza nutrirci
- addomesticando come un animale,
del nostro pube e petto l’istinto universale.

Non sapendo un nostro mondo immaginare
- letale sterilità d’ogni indistinguibile sperare -
lo strozzato orizzonte di questo mondo
non potremo mai più cancellare:
ineluttabile cattività di carogne a perpetrare.
Non difendendo che nel ricordo,
non amando che nell’addio: lacrime amare
d’inetta fraternità da servizio militare.

Al fallir della sola nostra rivoluzione
non è servito che un sussurro interiore:
quell’atavico tremor estorsore
di scoprirsi dannato ricchione
a non pagar in amici, fratelli, quel calore
da una lei spacciatoci per amore


Ad Orlo ed al Mono,
per ragioni analoghe ma corrispondenti

13.4.12

IL FASCINO DISCRETO DELLA BUGIA
 

“L'etica del lavoro è l'etica degli schiavi.” 


'Gli imprenditori danno il lavoro.'
Gli imprenditori... questi suicidi peccatori
che credon di togliersi la vita
insieme alla colpa d'averla sì vissuta:
incuranti, ormai, del perdono
poiché dio, insieme al popolo,
ha abdicato al proprio ruolo.

Popolo compiutamente massificato
in un'incoscienza di classe cui è negato
finanche l'odio verso il padrone:
ritratto in cornice di proletariato
alle spalle di Keynes e Marx inchiodato,
in un ricorso storico di socialismo evangelico
dove l'anelata unione
- che fa la forza lavoro come il plusvalore -
non invocherebbe che benedizione
al capriccioso speculare dei mercati
- sorta di caduti angeli ingrati
ribelli all'imperscrutabile disegno d'amore
del Padre loro Capitale.

'Gli imprenditori danno il lavoro.'
Questo è quanto resta
di una coscienza di classe
dispersa in ogni testa:
dove non dai Manganelli,
da emuli lupi in vesti d'Agnelli.

Lasciando l'etica degli schiavi più devoti,
lo smarrimento sempre sospetto
d'ogni inalienato reietto,
lungo autunni ormai caldi
quanto ciminiere in giorni e volti
remoti, ignoti, vuoti.
 


12.4.12

DEL SELVAGGIO DOLORE DI ESSER UOMINI



Entro questi confini
non sembra esserci più diritto
- di cittadinanza come di asilo -
per il dolore di un padre, o un uomo.

Una colpa che, come tale, è anche loro.
Cedendo alla mortale lusinga
della doverosa virilità maschile,
essi hanno scordato, rinnegato, disimparato
il proprio pianto,
inaridendosi nelle sole lacrime
d'ogni ricatto femminile.

Quelle lacrime impietosamente accusatrici
delle loro madri, le loro mogli,
fatalmente, dei loro stessi figli:
in una condanna senza appello
di vittime senza innocenza.

11.4.12

L'IDEALISMO DELLE IDEE

“And I sware that I don't have a gun.”



Basta con il sopravvalutare queste democratiche, presunte idee!
Lo scrittore o scrivente
che proprio non potesse farne a meno
- di scrivere come di idee -
se ne faccia almeno una, ancorché vaga,
di quanto un poco di inchiostro, carta, plastica, vetro, silicio,
quanto tutte quelle rivoluzionarie idee in forma di parola
muovano il pianeta e la sua umanità
infinitamente meno di una fabbrica, una galera, una scuola,
una moneta, un capezzolo, una bomba, o una pistola.

4.4.12

DEDICA A MIA MADRE

”E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio”




Pensarti altro da ciò che sei:
non so, o solo non voglio
capire, non ancora,
verso chi di noi due
sia questo crimine peggiore.

Ricordarti in una raccolta
di mie parole, violente e disarmate
come i ricordi in cui siamo avvinti.
Parole per cui non ho vocazione
di credere quanto invocano, vitale,
la luce - se non dal buio della tua, della mia.
Doverti un atto d'amore
mosso dal petto ormai corrotto
nel benigno cancro, lo specchio dell'io d'autore.


Dirmi, nella superstite determinazione
di ogni disillusione,
che di assenza, sfiducia, distrazione,
quando non disamore,
deve nutrirsi il solo fare
ancora degno di dirsi tale.
Che è dolore a generare arte,
l'arte che mai saremo degni di nominare,
l'arte che sempre rinasce, per accusare
- tutti, senza distinzione:
incurante di poter cambiare
ciò che, solo, chiede di non scordare.

Benedire quanto in te immutabile,
innocente nel barbarico ricatto
d'ogni mio giovanile, furioso divenire:
l'unico tuo insegnamento
è quello inconsapevole, dunque vero,
quanto nell'intenzione mai saprebbe l'umano.
Il tuo solo lascito,
quello che non vuoi capire
perché, sai, non potresti amare:
quanto basta, per non morire,
all'ineluttabile essere del mio istintivo fare.

Così credo di saperti perdonare,
soltanto così doverti amare:
nella parola con la quale
non potevi altrimenti rispondere
alla mia voce pudicamente timorosa
- ostinazione puerile
di stagioni in cui, come prigioniero
del mio e tuo soffrire,
ho capito, è possibile gioire -

che nel profano rito famigliare
d'un desolato silenzio postprandiale,

recitava quell'unica, universale Supplica a mia madre:
'Quant'era bravo, questo qui...
Un culto della madre, si sente, da omosessuale.'

2.4.12

PRIMA VERA
  

S’avvia verso la sera,
s’avvia lenta
come questa luce spenta
dentro ogni primavera,
l’ultima processione dei vostri corpi:
corpi morti e non risorti.

I vostri corpi
così arrogantemente celebrati,
ciecamente contemplati.

Dentro vite, così, candidamente,
colpevolmente consegnate
alla gabbia di quei corpi
-  cavie attraversate
da elettrici spasmi di sensazioni,
epilettiche di pene e speranze:
inabili ad ogni sentimento,
mai degne di emozioni.

Le vostre vite
condannate
a non essere mai state.

1.4.12

GLI STRUZZI


Poeti dalla sempiterna eleganza
di struzzi einaudiani,
poeti da readings importati,
insieme con blues elettrici riesumati
tra grondanti criniere mascherati
vibranti d'indie-etnici aperitivi cenati.

Lisi intellettuali nati, laidi creativi improvvisati, lesi sensibili incapricciati...
non trovo poesia in alcuna vostra poesia.
- Una poesia inesistente,  
come potrebbe valer più di niente?

Poesia sfuggita a dita da pianisti malati,
da figli di falegnami accademizzati:
dita esangui, avide, meschine.
Dita che non potrebbero osare,
quand'anche volessero imparare,
quel torcersi al fondo delle piaghe...
tra il sangue marcescente
di questa nostra modernità
così colpevole, innocente.