20.4.12

NOSTRA CULPA

“Provate pure a credervi assolti, siete lo stesso coinvolti.”



Dopo simili prove di cinema, credo ci sia ancora speranza di mettere a tacere la fideistica invocazione - coerente con la nostra “psicologia miracolistica” - rivolta ad un ineffabile quanto ossessivo concetto, dal vago sapore crociano, di “cinema italiano”. Mi si passi il salto logico, ma mi sovviene quella illuminante chiosa secondo la quale vano sia interrogarsi circa l'essenza dell'amore, quando assai più proficuo sarebbe profondere risorse d'attenzione alla presenza di atti d'amore - forma mentis che, se impiegata in ambito teologico, ci libererebbe con insospettabile tempestività dell'avvilente, sterile interrogativo circa l'esistenza - meglio, la presenza nelle umane vicende - di un dio, quale che sia.
Scusandomi per la prolissità introduttiva, vengo alla pellicola, Diaz. Partendo dalla questione: dinanzi alla realtà - ed a questa realtà, in particolare - ragionare rigidamente di cinema, di sedicente arte più in generale, quanto può valere? Forse i soli che avrebbero il diritto di giudicare sono coloro che questa realtà hanno dovuto subire, mentre i soli che avrebbero il dovere di giudicarsi, coloro che la stessa realtà hanno contribuito a fondare e legittimare.
Ogni altro discorso - a partire dal presente, s'intende - non può che essere un inevitabile accidente.
All'uscita dalla sala ero solo, ma non sarei comunque riuscito a parlare: per una volta senza dolermi, piuttosto benedicendo il mio non aver nulla da dire. Dentro, continuava a rintoccare - cupo come i tonfa abbattuti su ogni corpo a marchiare - 'Questo è lo Stato... Questo il paese in cui sei nato.'
Sulla strada di casa, benché età e casualità mi abbiano fatto imbattere più volte nell'ossimorica compresenza di Autorità ed umanità, benché non proprio nato ieri, dunque, mi sono scoperto a guardare ogni divisa passare, con altri occhi: occhi finalmente veri. Occhi spalancati e colmati da immagini che, sai, non esorcizzerai solo chiedendo al tuo padre interiore di ripetere al te bambino 'Non temere, dimentica, è finzione...'
Auguro a questo film ogni bene, ogni fortuna - esteri, però, dato che in Italia non abbiamo mai saputo che farcene di capolavori (e non credo sia questo il caso) per guardarci dentro, sputare ciò che c'era da sputare, per provare, non da domani ma da oggi, da subito, qualcosa a cambiare.
A proposito di capolavori, fa sorridere amaro che un inarrivabile - non solo artisticamente - in stato di grazia come Volonté e il suo 'Tu non sei un cavallo, tu sei un cittadino democratico!' inculcato ad acqua e sale, non sembri al confronto che candore caricaturale: non certo per responsabilità attoriale ma per “le magnifiche sorti e progressive” della crudeltà del Male.
Dicevo, rammaricandomene sinceramente, non trattarsi di capolavoro - non si è davanti ad un Garage Olimpo, rimanendo in ambito di rare immagini capaci di mordere lo stomaco e rapire il fiato: ciò non tanto con riguardo alla ricostruzione, che ho trovato esaustiva ed equilibrata, ma alla “messa in scena” della narrazione. Questa ha il suo punto di forza, credo, nella creazione di un climax e di una sospensione quasi insostenibili nell'attesa che ciò, che sappiamo essere l'Orrore, si compia - la claustrofobica rassegnazione nel “silenzio degli agnelli” in ascolto, a mani alzate, dei carnefici avvicinarsi, mi sospingeva a lasciar la sala. Indelebile, tutto ciò, più dei ludici accanimenti, fisici e psicologici, sui quali ho trovato opportuno da parte degli autori insistere - piuttosto che “rifugiarsi” nel fuori campo, stilisticamente più disinvolto ma sotto un profilo etico non sempre ottimale - e grazie ai quali sono riuscito a comprendere appieno quel verso di Allen Ginsberg che evoca una “Cecoslovacchia attaccata dai robot” (Kaddish, Nda).
Trovo, per converso, che sarebbero stati evitabili certi didascalismi narrativi: didascalismi sia impiegati a sottolineare la fatalità implacabile dei “sommersi” come dei “salvati” - vedansi la giovanile curiosità dell'anziano, grazioso e tenero ma alquanto (furbescamente?) ridondante, e i due amanti disinvoltamente post-hippie, incolpevolmente (e per questo meno odiosi dei dreamers di Bertolucci) avvolti da Eros, mentre fuori, nel mondo reale, Thanatos è ai loro simili che presenta il conto da pagare; come pure didascalismi addossati sui due nomi di richiamo, Santamaria e Germano: attori indubbiamente valenti, pur nei loro limiti evidenti, ma appunto alquanto sacrificati dalle scelte narrative. Ciò detto, un plauso particolare va al primo dei due per il non così semplice “metterci la faccia” - altro è quando “se pijamo Roma” tra saporite pupe e sventagliate anni Trenta - dietro ad una maschera di nostrana inettitudine, inabile fino in fondo al male come al bene, dunque eternamente plasmabile sino all'agognata autoassoluzione, tra un pensiero alla famiglia - vel Moro dalla Prigione del Popolo, come ricordava la Braghetti cui di ciò, almeno, va dato atto - uno alla carriera, uno al primo bar per la colazione. 'Stavolta avete fatto una cazzata' - ammonisce paterno quel soave anziano: a dimenticare che nella patria della deresponsabilizzazione, dove dietro ad ogni uomo c'è un potenziale mammone, le cazzate si possono fare eccome, poiché reciso ab origine quel nesso eziologico che altrove lega il delitto alla propria punizione - puntuali ce lo rammentano le note finali. Puntuali quanto la ricostruzione della sostanziale gratuità del raid e le successive menzogne ufficiali, a castigare ridendo mores di una generazione che, semplificando brutalmente, è stata condannata dai vuoti di memoria famigliare prima ancora che dai vuoti di civiltà istituzionale.
Come pure è onesto non aver escluso la presenza di manifestanti non pacifici - ignoro volutamente il termine black bloc, che di per sé implicherebbe una parentesi sul ruolo dello Stato a riguardo - e addirittura fare di uno di essi, il ragazzo che fugge via convinto cercassero lui, un personaggio centrale: lui che mi riporta alla mente, in conclusione, con la sua disinvoltura guerrigliera - “sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale)”- tra una bottiglia di birra ed una esplosiva, il commento tempestivo dispensatomi da un allora ventenne volontario di Croce Rossa futuro medico, marito, padre: 'Sì, la polizia ha menato, ma quelli che casino hanno combinato!? Cassonetti in fiamme, rovesciati... macchine, vetrine spaccate...'

Diaz, questo sangue non lavate.

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