4.7.13

L'esistenza applicata

Avevo vent'anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita.


A vent'anni io andavo per locali da solo,
cercando il piacere e provando solo vergogna.

A ventidue vegliavo con la televisione,
provando ad ingannare il tempo necessario a scordarmi di un amore.

A ventiquattro mi tiravo dietro tutta l'astiosa delusione famigliare,
uscendo con gente cui non importava di sé, credo, molto più che di me.

A ventisei ero uno di quegli inutili, tardi laureati 
che ormai credevano solo nel buio e nell'alcool per sfogare la propria frustrazione,
espiare ogni loro illusione.

A ventotto il dio femmina aveva deciso di trovar qualcosa in me,
mentre imparavo quanto cara si paghi quel po' di euforica emozione
scambiata per felicità.

A trenta iniziavo a vivere già tra il passato 
ed un futuro sempre meno credibile, ma ancora atteso.

A trentadue incontravo il primo amore 
che si lasciasse raggiungere, non solo inseguire:
nell'altrui rischio preso, il proprio coraggio riflesso, 
trovato qui e adesso... In ogni passo puro terrore, 
in ogni respiro rarefazione da sommità mai esplorate;
nella lucida prospettiva che tutto è in gioco, che questa dev'essere la vita.

A trentacinque, se proprio devo, mi capita di voltarmi
e di restare senza parole, in un silenzio che vorrei di pudore,
alla domanda, indolente come l'accidia che la muove, 
'Ma non rimpiangi la tua giovinezza?'
... Ed è poi lì, in quella retorica molle e cadente, 
che trovo vera consolazione per non aver mai avuto vent'anni. 
O almeno, non quelli degli altri.

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