5.8.11

FIGLI

In sogno ti penetravo, con amore. Ti venivo dentro, naturalmente.
Colma di gioia, in un istante ti sei sentita, capita gravida.
Dono intuitivo a lui estraneo, nella donna l'uomo non può che temerlo.
Io non riuscivo a provare, né a recitare, il calore che i tuoi occhi sembravano attendere frementi; i miei occhi già colmi di paura, che infine si liberarono, come solo da bambino, nelle lacrime. Poi mi trovai da una coppia di analisti: sapevo, con quel senso confinato soltanto nei miei sogni, che erano marito e moglie, e non potevano avere figli. Mio padre, lì vicino, pur essendo ben più vecchio di loro non sembrava fuori luogo, né spaesato: forse per questo lui, la sua compagna e il loro bambino appena nato affascinavano tanto gli sterili analisti; mentre io non potevo che sentirmi nauseato da quel grottesco presepe avariato. Ma lui e sua moglie erano ormai irrimediabilmente rapiti dallo sceneggiato: bevevano avidi, mistici come naturisti davanti a un prato, quel miracolo sufficientemente laico per non intaccare la loro scientifica integrità.
Io disperavo ormai di finire, entro le cinque, di esporre la mia teoria, lamentandomi, debole ed inutile, che sarebbe stato fatale inibire in quel modo un paziente che, miracolosamente sbloccatosi, sentiva di dover parlare. Non funzionò, e così minacciai di tirargli due monete - non tre, né d'oro finto: due, una per analista, se il marito non fosse sceso dalla finestra al primo piano da dove si continuava a celebrare quell'edificante idillio familiare.  
Ci tenevo tanto a concludere, e non ricordo se infine mi riuscì, ci tenevo perché nel monologo ero giunto al nodo di quella teoria che andavo affinando, non senza fierezza, ormai da tempo. Riassumibile nell'inettitudine - tempo addietro avrei detto contraddizione ma ormai avevo superato certe ingenuità - interna ad una società che caldeggia, quando non impone, psicanalisi e psicofarmaci, fondandosi, al contempo, e preservandosi, sulle più diverse, sottili sfumature di dipendenze.


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