SCAVARE
IL VUOTO
Strano…
i ricordi, quando credono, ritornano sempre più sfocati, mentre il
dolore resta così nitido, affilato nei suoi netti contorni. E'
dunque un'immagine sbiadita – come avvolta, nella memoria, dalla
stessa foschia di quell'alba – che pulsa in me ciclicamente, simile
ad uno squarcio rimasto aperto nella mia coscienza. Una delle nostre
consuete marce mattiniere ci aveva condotti all'ennesimo villaggio,
da attraversare tra brividi che la spossatezza non avrebbe placato:
un minuscolo agglomerato rurale, apparentemente indistinguibile dagli
innumerevoli che punteggiavano con regolarità di vaiolo quelle terre
disgraziate, dipinte come per macabra ironia di un verde ed un blu
irreali, da fantasie infantili; sibilanti di insetti come di povertà
operosa e sottomessa, che ai nostri occhi appariva, inspiegabilmente,
più che dignitosa… fiera. Ma da quel posto la vita, in ogni sua
espressione, sembrava essersene andata, e quel silenzio denso, fermo
quanto tutti gli occhi che ci avevano fissato prima di chiudersi per
sempre, era l'unico lutto concesso, cui anche il vento manifestava il
proprio muto rispetto. Lì vita non ce n'era più: assente negli
oggetti come negli organismi, niente lasciava credere che sarebbe mai
tornata da quelle parti, tra quelle abitazioni che non avevano
conservato niente dei loro gracili tetti, mentre le rare mura
superstiti affioravano dal terreno arso stagliandosi patetiche come
denti spezzati in gengive ritrattesi. Era come se un onnipotente arto
di bestia gigantesca avesse spazzato via, con umiliante noncuranza,
ogni paziente opera umana e naturale: una punizione non dispensata,
tuttavia, da mano divina bensì, assai più follemente, da mano
d'uomo. Quanto ai corpi, fossero persone o altri animali, dovemmo
percorrere sino in fondo quel cimitero spontaneo per trovarne
traccia, e scorgerli rannicchiati in diverse cataste sparse in un
pianoro che doveva essere già stato, per loro, luogo di
aggregazione: sembravano tutti assopiti come elefanti esiliatisi, che
attendano il compimento del loro destino in pudico raccoglimento; in
realtà, nelle sembianze, nient'altro che dei manichini mutilati,
impregnati di morte chimica sotto un velo di nerofumo. Al confronto,
il soffio di bambini su di un formicaio avrebbe tradito candore meno
crudele: li avrebbe trattenuti un informe richiamo morale, che nei
soldati muore al primo colpo esploso o evitato. Così filosofeggiavo
tornando interiormente sino ai miei giochi d'infanzia, tra le tante
visioni dove cercavo riparo a ciò che i nostri occhi non smettevano
di guardare, appostati dietro al mirino di macchine fotografiche o di
altre armi automatiche. Dunque era questo il Paese che si stava
difendendo, ufficialmente (e letteralmente) servendolo… questa la
guerra che si stava cercando di vincere, ammesso che una guerra possa
determinare vincitori e vinti… questo il prossimo che si era eletto
come nemico… finendo per scavare un buco sempre più largo e
profondo, una fossa comune nel punto del mondo abitato da questa
gente; per poi afferrare, impadronirsi materialmente del vuoto
rimasto. Quel medesimo nulla che i 'cittadini liberi' della nostra
società possono solo inseguire, quotidianamente, fino alla fine.
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