5.6.12

I NOSTRI CORPI CELESTI

 

Esordisco consentendomi un aneddoto personale che trovo discretamente pertinente: prima di arrivare, ormai trentenne, a maturare la necessità di sentirmi anche formalmente estraneo all'istituzione Chiesa Cattolica Apostolica Romana e dunque esercitare il diritto - che, colpevolmente, ignoravo - di sbattezzarmi, sono passato anche io attraverso tutte le tappe della via crucis sacramentaria, e quattordicenne ho ricevuto dunque il sacramento della Confermazione. Ricordo che, a "sintonizzazione con Dio" avvenuta (per citare la pellicola in questione), ci si scambiavano commenti che in altre epoche avrebbero avuto come sfondo le tanto rimpiante case chiuse dalla Merlin: il reciproco interrogativo ricorrente era infatti 'Ma tu, hai sentito qualcosa?'. Naturalmente i catechisti e le catechiste, ben più giovani e avvenenti (e, suppongo, sfuggenti alle mortificazioni della carne ex iure canonico vigenti) della Perpetua che ci si propone, ci avevano da tempo ammoniti a non attendere chissà quale moto interiore contestuale alla celebrazione - in fondo, non si trattava che di confermare quell'ingresso nei Sacri Misteri compiutosi con la masticazione del corpo e sangue di Cristo, che a sua volta non aveva (al di fuori di qualche inevitabile effetto di suggestione) provocato, a mia memoria, alcuna folgorazione sulla via di Damasco.
Scusandomi per il nostalgico excursus autobiografico, e venendo all’opera oggetto di recensione, vorrei preliminarmente notare come sia un bene che di una regista ed autrice si tratti: possiamo così temere un po’ meno circa inquietanti pulsioni erotiche represse e ragionare del lavoro in sé. Naturalmente, se assolutamente arbitrario e dunque delinquenziale sarebbe attribuire malcelati voyeurismi in fase di scrittura prima e di direzione dopo, credo sia invece legittimo esprimere un’opinione (che resta tale e personale, beninteso) secondo la quale il cinismo con cui si è scelto di far denudare la protagonista, farle recidere i capelli, farle scoprire la sua femminilità adulta in una macchia sui pantaloni, è assolutamente odioso nonché preoccupante, e nulla importa la sostanziale inutilità o ridondanza diegetica delle scene in questione: credo che ad una attrice che per la giovanissima età non può che considerarsi prima di tutto una persona, determinate prove recitative non andrebbero affatto proposte. Ciò dovrebbe valere anche per gli adulti, ma sebbene non condivida la disinvoltura con la quale molte attrici (chissà perché, anche in ambito di “cinema d’autore” si richiede sempre più a loro una certa esposizione del corpo) si prestano a determinate interpretazioni, resta una scelta compiuta da adulti che, anche per il dato anagrafico, si presumono consapevoli.
Come non ricordare, a tal proposito, il durissimo e necessario Dei bambini non si sa niente? Al di là degli intrinseci meriti artistici che renderebbero impari oltre che fuori luogo ogni raffronto, l’intatto rigore morale che muoveva quella narrazione - imperniata su aspetti assai più crudi e drammatici dell’universo infantile ed adolescenziale - stava anche nel raccontare una realtà facendola rivivere nella memoria o nell’immaginazione della scrittrice: l’unica a farsene così doloroso carico nella creazione. Cosa che non può avvenire, va da sé, in un’opera d’arte figurativa: dove il rispetto dei corpi e delle menti che si fanno anch’essi opera dovrebbe nascere da un pudore ed un rigore che credo manchino, al di là di qualunque abilità tecnica e narrativa (che francamente non osannerei come ho visto fare quasi coralmente) a questa regista.
Tutto ciò mi impedisce - non che sia fondamentale - di esprimere un compiuto giudizio di merito. Nella circostanza giudico le premesse, la messa in scena, e ciò mi risulta ostativo di ogni ulteriore valutazione. Ma qualche considerazione sul film in sé vorrei farla comunque - l'espressione, pur sacrosanta, della pura indignazione mi sembra poca cosa a giustificazione di queste righe. Mi limiterò di seguito a rilevare scelte narrative complessivamente oscillanti da un’insistenza intollerabilmente ridondante ad una inconsistenza francamente dilettantesca: il tutto avvolto in un “paesaggio nella nebbia” (la menzione di Angelopoulos non risulterà casuale a chi ricorderà certo struggente peregrinare infantile di quella pellicola) di raro sopore. Inconsistenza dei personaggi: evanescenti come la madre così dolce, fragile, debole (per tacere del padre, che se nessun ruolo doveva avere all’infuori di una stretta di mano di presentazioni, zittire l’isterica figlia maggiore, giocherellare con il telefonino, poteva anche essere espunto, senza che se ne avvertisse mancanza, dall’economia della narrazione) o brutalmente tagliati sino alla caricatura (peccato, tra questi, per il sempre bravo Carpentieri costretto in poco più di una comparsata da savonaroliano asceta). Come caricaturale, benché tristemente plausibile in termini di realismo, mi rendo conto, è la descrizione del processo di mondanizzazione della Casa del Signore: ma francamente proporci, mi si passi la terminologia sportiva, un minutaggio simile di catechismo e clientelismo quale scopo avrebbe? Voglio dire, ci si è chiesti quali occhi dovrebbe aprire una simile rappresentazione del lavaggio cerebrale di spaesati giovanissimi nonché di strumentalizzazione dell’indigente bue popolo adulto? Non mi si fraintenda, tendo ad appoggiare quasi a priori qualsiasi tentativo di denuncia di quell’associazione a delinquere
(è ormai dimostrato anche in punto di diritto) che mi ha tenuto, letteralmente, a battesimo. Ma farlo in tali termini credo, per restare in tema, significhi predicare ai convertiti. Similmente ai tornei sportivi vaticani dello psicologo Moretti, la sensazione è anche qui quella di voler essere originali e brillanti ad ogni costo (non a caso ci si guarda bene dall’inserire un abusato figuro clericale “amante” dei bambini), fregandosene disinvoltamente dell’efficacia ed opportunità dei linguaggi scelti nel rapportarsi ad una materia ancora centrale nelle periferie e semiperiferie del mondo, quale la religione (fondamentalmente cattolica) nelle sue complesse ramificazioni istituzionali di potere spirituale e temporale. Pazza voglia di originalità trasuda anche nell’accenno (che resta tristemente tale: non una parola di spiegazione) dell’emigrazione di ritorno che finisce per fare da avvio narrativo e nulla più.
Concludo sul viso della protagonista: perché oltre al viso, effettivamente toccante ed espressivo, nella sua involontarietà, c’è poco altro. Siamo ben lungi dal dirigere i giovanissimi con la matura sapienza di un Amelio o con l’umile amore per il cinema e per i suoi interpreti di un esordiente Rossi Stuart. Non basta far vagare tanta angelica purezza tra macerie paesaggistiche, edilizie ed umane, nonché, impietosi, farle scorrere davanti ai trasparenti occhi le peggiori profanazioni, letterali (i cuccioli uccisi) e simboliche (il Cristo caduto) per guadagnarsi una credibilità artistica (ed umana: un simile cinismo io non lo dimentico) che possa sopravvivere ai circostanziali, entusiastici elogi che non si negano ad alcuna “giovane promessa” italiana.
Chiedo venia, congedandomi, per certi toni. Ma se la visione ci ricorda che Cristo era furioso, e Dio ci ha fatti a sua immagine e somiglianza, sillogisticamente…




Nessun commento: