27.3.12

ERANO ANGELI

Voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo.”


Nelle mani del sacerdote
non trovaron schiaffi né carezze,
quelle mie inermi gote.

Attenzioni più articolate,
esternazioni altrimenti private,
non già, ch'io speri, gli sian mancate:
a me solo, in sorte, risparmiate.

Dunque il castigo, sempre educativo,
finì con l'esser commissionato:
troppo timida la mia aria,
o chissà, nei voli erotici di prelato.

La perpetuazione della morte di resurrezione
a zelanti angeli, così affidata,
della meglio gioventù immolata:
in ogni nostra quotidianità,
loro aurora sussurrata al gelo buio di Torah.

Loro, in me bambino,
più del Padre, uno e trino,
volto umano del Divino.
Nel nome di catechisti,
la custodia dell'ordine sociale
che, prima, nella nostra neocrazia
a me fu dato ricordare.

- Come ogni cella trasparente,
tanto fragile quanto tagliente,
d'un carcere bisognoso
d'amor solerte, scrupoloso.

Nel ruolo di responsabili,
stigmate già mature, fonde suture
cui devo il me immune
dalle sirene di piazze future...
narcisismo démodé
d'ogni parodica Comune,
isteria di naufragi
da dilettanti della rivoluzione
a professionisti della restaurazione.

P. S.
"Erano angeli" dà il titolo ad una raccolta di racconti di Luigi Bernardi, per casualità trovato anch'esso, tanto tempo fa: lieto di ripetermi, come accade per le più belle cose, il suo ricordo ne ha portati altri.




L'ordine a custodia del quale erano preposti quei volenterosi, si palesò presto nella sua primordiale natura elementare: forti o deboli, sopraffazione o persecuzione.
La forza era essenzialmente fisica, allora: data da un privilegio anagrafico, più raramente genetico. Tuttavia, equilibri più articolati, poggianti non sulla forza fisica ma sul ruolo sociale, già si iniziavano, inesorabili, a delineare. Ad ogni modo, fisicamente dominanti, i persecutori avevano a disposizione, al bisogno o al capriccio, una pressoché totale coazione. Trovai quindi significativo che, pur dotati di questo strumento, prediligessero ancora l'anonimato del buio, il riparo del branco, per godersi il nostro tormento.
Come pure eloquente la prevalenza, in età prepuberale, dell'elemento sessuale quale criterio forte di trasformazione conservativa di quell'ordine sociale, di cristallizzazione della sua iniquità consustanziale.
Si insisteva sulle dimensioni, esigue sino all'assenza, o sulle inclinazioni ad un uso invertito dell'organo del malcapitato. Contrapponendo, sempre a suo beneficio, la propria virilità ideale evocata da formule come 'Te lo ficco in bocca e ti sfiato'. Illuminante anche una simile ricorrenza omoerotica: forse presagio d'una qualche latenza, forse vocazione a carceraria, o meramente calcistica, militanza.
Poi, coerentemente, si transitava nella dimensione del femminile - reale o fantasioso poco contava - di provenienza del vessato. Madri e sorelle minuziosamente delineate come doverose latrine della loro, o altrui, bestiale natura maschile: a sottolinearne per contrasto il beffardo destino, la specchiata moralità domestica dell'aguzzino – summa illuminante tra le generose, efficaci tante: 'Tua madre scopa e la mia incassa, visto che bella società?'
A quel tempo mi illusi spesso, debolmente come in tutto ciò che facevo, che quegli incaricati, quei quasi adulti, fosserò lì a custodia non certo di una fumosa giustizia, per carità, ma quantomeno di una più tollerabile iniquità, a conservazione dello status quo stesso.
Magari gendarmi, come nelle nostre raffinate democrazie nominali, d'un astuto progetto di dissenso addomesticato, irresistibile miraggio d'ogni progressista assetato.
Ma, avrei scoperto presto, il Potere si preservava in altro modo. Agli schiavi non elemosinava alcuna condizione meno intollerabile: ne esplicitava semplicemente la natura ineluttabile. Ciò avrebbe evidentemente garantito, con sufficiente approssimazione, la cauterizzazione d'ogni sovversiva infezione, a partire dalla più debole protesta o esternazione. Lo compresi parte per acume, parte per l'eloquenza d'una cruciale circostanza.
Colonia estiva parrocchiale. Il muto buio della camerata vibra dell'insulto di fresco coniato per mia madre, o una sorella ipotizzata. A far da cassa di risonanza, l'isterico riso d'ogni agnello mio fratello risparmiato. Poi fulminei, in successione, la mia replica - non trasversale ma a centrato bersaglio personale - e il bruciante schiaffo d'un solerte ufficiale, ogni velleità sovversiva giunto a scongiurare. Tardo confidare nella solidarietà d'alcuna vittima. A parole forse, ex post, in qualche "lacuna del dolore", non certo nel momento del fisico bisogno: quando l'unione qualcosa avrebbe potuto risparmiare, non solo compatire, dopo, e consolare.
Fedeli all'ipotetico uomo di Primo Levi, ci preparavamo così alla solitudine incolmabile che contraddistingue l'individuazione dell'età adulta. Se c'è un lascito necessario, in quella sua celebrata discesa in lager, al di là di speculative retoriche - filo-sioniste o piagnucolanti fini a se stesse - è l'aver dimostrato, con encomiabile pacatezza di scienziato, la carogna in fondo all'uomo, quale che sia il suo stato.
Bei tempi, per tornare ai miei. Espliciti, eloquenti, esemplarmente coerenti.
Inutile precisare, quell'aspirante adulto giunto a conservare, non mostrò mai di cogliere il senso del suo agire: sarebbe stato del resto inutile e dannoso, per chi deve solo eseguire.
Nonostante ciò, gli rubai un'esitazione che mi fece quasi sperare, il mattino dopo nel bagno comune.
Fece infatti fatica ad incontrare il mio sguardo, che pure al tempo era liquidamente sfuggente - anche per la fatale prossimità del pianto. Certo, lo disprezzai comunque: seppi mantenere, almeno dentro, l'unica possibile posizione che mi potesse far uomo, se non farmi onore. Ma oggi che la consapevolezza, se non della portata, della natura dei danni subiti, mi dona una qualche prospettiva, recupererei quel seme di speranza che i suoi occhi bassi sembrarono accogliere nella circostanza. Augurandogli, nella pena residua da scontare, un neonato albero da cui, se non fuggire, almeno intravedere il reale, per scoprirlo vasto ed implacabile, com'è in poesia il mare. Un seme che, mi piace pensare, nacque dalla mia testa: questa testa bassa, che in fondo non si volle piegare.


A V. e C.,
primi, inconsci
custodi del mio inconscio

Rigopiano, 1986 – Pescara, 2011
(Perché, parafrasando un Pablo,
non ha richiesto ore o giorni, quest'opera,
ma l'intera mia vita)

Nessun commento: