22.7.11

LA SOLITUDINE DELLE FERMATE

Sono uno sgorbio guardone ma perlomeno non mi espongo”


Avevi pochi anni.
Ed io credevo di vederli tutti:
a lungo li avevo guardati,
ben prima di vedere te.

Pochi ai miei occhi freddi,
timidi quanto avidi,
lasciati vischiosi in superficie,
sottilmente venefici
come micropolveri in estate.

I miei occhi in nulla altri
dai tanti altri ruvidi, taglienti
che quei pochi anni ti avevano educato
ad accogliere ormai sulla pelle.

Anni distratti ma abili a schizzare netta
la curva delle tue bianche spalle:
così sottile, perfetta
da piegare sotto quello che
gli anni a venire avrebbero portato con sé.

Nei nostri sguardi miserabile fratellanza
d'invidia, desiderio, rimpianto:
lisi veli spanti su vite perse lontano,
vite non trovate; nostalgie mai maturate.

Tu eri diversa, il tuo intero essere una smagliatura
nell'arrogante corpo smagliante
delle tue simili oscenamente oltraggiate
da quella provinciale, indolente estate.

Tu eri persa, in un giorno solo
negato il ciclo rassicurante del dovere;
quel mai chiedere, sapere: 
mangiare, dormire, obbedire se
siano questo la vita, e perché.

Tu così intima alla timidezza,
presto anche al dolore,
per non avere già negli occhi, in cuore
l'immota processione di quelle mute ore:
bianche, come le tue spalle sole.

Sembrò sfuggirti un'emozione: pura apprensione
per il numero ancora anonimo in fondo al viale;
oscillavi cauta su quella gamba sola, sfortunata.
Patetica come non mi volli dire,
patetica come l'attesa di quel bus, tardivo
quanto un padre adottivo.

E come non voglio scrivere, ora,
ricordare ciò che sarebbe facile,
falso dimenticare:
nell'eterna distanza mai colmata
che mi negava la tua fermata.

Potrei, avrei potuto
se non fosse arrivato tardi,
se non fosse mai arrivato
ciò che non so dire, ma avvizzisce il cuore
o quello che ne rimane.

Se solo non avessi maledetto il tuo bus,
che ti portasse via, tenendomi a fissarti
e niente sentire di ciò che eri:
solo la traccia divertita
su cui la vita in te si era accanita.

Solo la tirannia della mia erezione,
in quell'organo che mi svuotava il cuore,
nutrendosi del suo sangue, strappandogli calore.

Ed era un bus orrendo, anche quello:
benedetto quando ti prese in sé, svanendo
in qualunque altrove ti abbia portato
insieme al paterno dolore del mio peccato.

Tu, mai esistita come la muta fantasia
d'umano, rinchiusa in questa poesia.


A Dio,
che ha una buona scusa per non esserci

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