7.7.11

VACCHE SACRE

Adolescente, come fosse un'attenuante,
consegnai ad una commessa conosciuta di recente,
con esibita indifferenza da consumato perdente,
qualche lirica abbastanza struggente
da conferire al mio esistenzialismo avvilente
un qualche tono post-decadente.

'Tu che frequenti tanti libri, mi piacerebbe sapere che ne pensi...'
Accolse l'investitura tradendo, incongruamente vezzosa, una fiera responsabilità.
In questo paese, le donne cui si rivolge la parola senza plausibile, evidente motivazione, sospettano, con timore o speranza, che le si voglia scopare, amare o, compendiando con inevitabile approssimazione entrambe le eventualità, che le si voglia usare: ciò indipendentemente dal loro personale patrimonio erotico. All'epoca, quando ancora mi affannavo a credere qualcosa, ero convinto che questo fosse uno dei più evidenti ed ingombranti effetti collaterali del femminismo e, più in generale, dei movimenti di liberazione sessuale, emulati giudiziosamente, nel mio paese, con un occhio sempre complessato ai modelli internazionali ed una totale mancanza di senso del pudore o anche solo del ridicolo.
Quanto a lei, rasentava l'obesità, come volevasi dimostrare a convalida di quelle sbrigative conclusioni sulle dinamiche tra generi. Mentre io al momento sfuggivo alla casistica di quel brutale teorema; non per una qualche illusoria aristocrazia fisica o morale, come avrebbero dimostrato puntualmente gli anni a venire, ma semplicemente per un circostanziato status farmacologico: da qualche tempo ero regredito nella beata impotenza infantile del litio e dunque, sessualmente, ero come non pervenuto.
Ad ogni modo, la mia stravagante proposta culturale fu salutata da una risposta troppo tempestiva per non farmi temere, a mia volta, un prevedibile secondo fine. Confermava i miei timori l'articolato giudizio critico elaborato, direi, nel giro di un paio d'ore: riassumibile senza eccessiva approssimazione in un laconico 'Hai un linguaggio forbito...'
Provai, colpo d'ala di disperata disinvoltura, a sorridere amabilmente che non avevo capito, che avrei gradito delucidazioni su quel termine così... forbito.
Lei niente, non colse ironia né tollerò rallentamenti al corso che aveva deciso per quegli eventi. Farfugliò spazientita qualcosa d'ancor più legnosamente zelante, poi venne al dunque: avremmo pranzato insieme, il mercoledì seguente? Precorrevo già tremante gli ovvi sviluppi, ma ero troppo solo, allora, per non concedere la mia eventuale lingua o poco altro, m'imponevo, a chi mi degnasse d'una qualche parola.
Al dunque venni tardi, almeno così mi disse. Se n'era già andata. Troppo puntuale o forse preventivamente demotivata, magari già allettata da qualche nuova preda designata. Smise rapida di simulare gentilezza, sputando a stizzito congedo sparute rivendicazioni tardo-femministe, sul genere la condizione della donna nella sociologia da riviste. Incassai, se non con stile senza repliche scomposte, almeno così amo ricordare.
Seppi poi che aveva trovato, pochi anni prima degli eventi, all'incirca alla mia età di allora, sua madre suicida, forse classicamente impiccata. Fugai con qualche senso di colpa sempre disponibile a quel tempo, il già vano astio fermentato.
Ma negli anni a venire fui costretto ad incontrarla ancora, a salutarla addirittura: si accompagnò infatti a gente che mi trovavo a bazzicare. Sempre grassa e, proporzionalmente stando ai fatti, desiderata. Raggiunse poi l'apice, di volume e forse anche d'appetibilità, riproducendosi, come d'intramontabile tendenza tra le sue simili nell'incombere della data di scadenza. Le augurai, con pari trasporto interiore a quei ruminanti al pascolo, d'aver afferrato, termine poco zen ma decisamente appropriato alla natura dei suoi appetiti emotivi, la beatitudine tanto agognata, nella definitiva consacrazione allo status di vacca sacra.

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