12.5.12

SOGNO NUMERO DUE

C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.”


Questa notte io e la mia famiglia siamo fuggiti dalla nostra casa. Mia madre correva a chiamarmi, e con il suo irrinunciabile tono di rimprovero di chi richiama, esortando a fare qualcosa che, del tutto arbitrariamente, ritiene già ovvio, mi urla sottovoce che 'C'è la polizia dentro la polizia!'
Non capisco dove siano e se dobbiamo consegnarci spontaneamente, oppure tentare di fuggire sia ancora possibile (non capisco perché fuggiamo, soprattutto, ma fuggire dalla polizia mi sembra, quello sì, istintivamente logico): c'è una grossa auto bianca di marca americana - una Chrysler, mi sembra - davanti al cancello del cortile, e per un attimo penso sia lì per aiutarci a fuggire. Poi però diventa una vecchia ammiraglia Mercedes, guidata da un anziano funzionario che ha accanto la figlia adolescente di un condomino della scala opposta alla nostra, catechista ai tempi della mia cresima ed ora padre di famiglia religiosamente prolifica. Ci sediamo dietro, io e mia madre - prima, nella trafelata discesa delle scale, le avevo chiesto cosa avrei dovuto rispondere ad eventuali domande e lei, sempre con quell'autoritaria impazienza, mi aveva ammonito a non dire la verità (...quale?) e, subito dopo, a ripetere semplicemente quanto avevo detto a lei (...cosa?): insomma, rispondere a qualsiasi domanda senza timore. Frattanto, da quel sedile posteriore la disinvolta implausibilità del sogno ci colloca alla guida di un'altra auto con cui l'anziano funzionario sembra averci concesso di seguirlo in questura - il ricordo di Pinelli e del suo motorino mi giunge solo dopo il risveglio - ma il traffico, nella stretta via di casa nostra a cui il sogno ha cambiato senso di marcia, aggiunto alla neve che inizia a cadere abbondante, rallenta all'inverosimile il percorso, e permette a me che sono alla guida di svoltare a sinistra - valenza troppo banalmente simbolica per rilevarla - senza che mi sia ben chiaro se con intenzione di fuggire o per semplice automatismo vitale da automobilista consumato. Ci troviamo così, d'improvviso, nella stanza di un luogo appartenente alla polizia, sempre io con mia madre alla mia destra: vogliono farci confessare quanto sappiamo - o non, piuttosto, inventare quanto non immaginiamo? - circa la scomparsa di mia zia, realmente inspiegabile ad oggi, così come reale è stata per noi tutti un'intera mattinata davanti a due carabinieri, che fortunatamente sembrarono credere alla nostra estraneità ai fatti - confortò questa mia convinzione una loro apparente umana comprensione. Ora davanti a noi è seduto un giovane negro dagli incisivi radi ed immancabilmente candidi e densi come avorio, un principio di acconciatura rasta, maglietta stile Marines pallido verde oliva dal collo lasco: il prevedibile aspetto complessivo dell'agente sotto copertura che, con metodicità minacciosamente maniacale e sovraeccitazione direi mefistofelica, riordina di continuo gli oggetti di cancelleria sul tavolo che ci separa da lui, mentre alle sue spalle un agente di cui mi sembra d'aver un vago ricordo altrettanto vagamente rassicurante, passa più volte come ignorando, sapientemente, ciò che accade. Io mi accorgo di indossare una sorta di pigiama - mi hanno già abbigliato da detenuto o sono corso fuori di casa nell'abbigliamento più vulnerabile che mi potessi ritrovare addosso? - con i bottoni anche sulla patta dei pantaloni, la quale non nasconde un'inspiegabile quanto debole erezione: se ne accorge il negro, che con un dito lungo, spesso, dall'unghia invidiabilmente compatta e forte, mi sfiora quanto basta per richiamare l'attenzione di mia madre - chiaro l'intento mortificatorio, mi dico, accorgendomi di avere infilato un tubo trasparente di color rosso chiaro - è il tubo di un catetere, lo riconosco poiché era toccato in dolorosa ed umiliante sorte agli ultimi giorni di mio nonno, il padre di mia madre, morto nel mio ultimo anno di liceo, quando ero ancora abbastanza giovane per soffrirne sinceramente, sebbene mia madre l'avesse messo prontamente in dubbio dall'abbigliamento (degli anfibi blu scuro) con il quale sembrava intendessi partecipare al funerale. Vedo che il mio romanzesco inquisitore inizia a manipolare quel tubicino dal potere tanto sottile sui miei organi genitali quanto i suoi metodi da polizia politica sul mio desiderio di avere una qualsiasi cosa da confessare: urlo prima ancora di sentir male, nella sciocca speranza di impietosirlo, nella imperdonabile stupidità di non far altro che contribuire ad istigarlo. Urlo istericamente, soffocandomi quanto la paura mi impone: urlo come gli scheletrici prigionieri che, nel secondo episodio della saga, il reduce John Rambo tornava nella giungla a liberare; sortisco un'antitesi della pietà come la giovane costretta a mangiare merda al cucchiaio dal Duca nel Salò pasoliniano. Mi torna alla mente solo adesso che fu mio padre ad assecondarmi - avevo circa dieci anni - in quella infantile malattia di edonismo reaganiano: compiacendosi più volte, negli anni a seguire, di quella mia tenacia nel sopportare una fila, lì nell'atrio del cinema, durata quasi l'intera proiezione precedente, pur di non rinunciare alla visione - tenacia precoce che negli anni dell'università non perse occasione per accostare, impietosamente, a quella che sembravo aver smarrito negli studi e nello sguardo d'“ambizione” rivolto al futuro. Sempre mio padre che, rievocando con impaccio l'uscita di Salò nelle sale romane, commentò sbrigativamente con un verso di disgusto la visione cui pure, da giovane intellettuale, non volle né forse poté sottrarsi. Ora il negro, forse temporaneamente sazio o altrettanto nauseato dalla mia pronta, femminea risposta al richiamo del dolore, indica a mia madre alcuni visi e corpi scarabocchiati sul muro che lei ha alle spalle: le spiega essere scene di rapporti sessuali, sgraziati autoritratti di detenuti che ci hanno preceduti. Comprendo, ormai, quanto efficace sia in simili condizioni, e quali irreversibili effetti stia già sortendo, un simile diletto di chi esercita il potere su vittime così istintivamente sacrificali quali noi, cittadini medio borghesi - mediamente onesti, tolleranti e timorati - siamo. Anche il dolore fisico, infertomi sotto gli occhi di mia madre, assumerà una valenza preziosa ai loro ignoti scopi, e lascerà segni sui quali potremo versar asciutte lacrime solo in una eventuale futura liberazione che non sarà, è chiaro sin d'ora, mai più totale. Cerco di rassicurarmi, in questo risveglio amaramente prematuro: non certo con la scrittura, che non potrà mai essere altro da un rabbioso, miseramente parziale, risarcimento intellettuale. Mi conforto, piuttosto, con quelle gracili nozioni freudiane o junghiane strette al petto nel corso degli anni, tentando una sorta di automedicazione dell'assillante tentazione della più inutile e verbosa mortificazione di una seduta psicoanalitica. Ricordo poi con timido sollievo di essermi addormentato, la scorsa sera, sulle immagini de Il conformista: conforto vanificato, tuttavia, dal solerte ricordo della lezione di storia poche ore prima, in cui un alunno, tredicenne, ha commentato la deportazione tedesca e italiana degli anni trenta sospirando un 'Ci vorrebbe anche oggi, per gli zingari.' Gli ho chiesto di ripetere senza un reale bisogno che lo facesse, né un sincero desiderio di schiaffeggiargli quelle guance grondanti stomachevole opulenza esibita, con infaticabile italianità, di padri - o patrigni, ormai - in figli. Ha farfugliato un pavido 'Lasciamo stare...' sul quale mi sono limitato a chiosare che a lui si richiede di imparare la lezione da portare all'esame, ma anche di astenersi da simili stupidaggini. Così come a me si richiede di ingozzarlo di nozioni e non di impartire lezioni, né anche solo suggerire fuggitive riflessioni: beninteso, non che l'avrei fatto, non mi costa ammetterlo, qualora me ne fosse stata conferita autorità. Ho infatti esaurito, non senza colpa, ogni fiducia nella leale forza delle idee contrapposta alla razzia che in troppe coscienze compiono simili vigliacche violenze: mi resta soltanto il colpevole timore di finire, un giorno, come a Parigi quel vecchio professore.

2 commenti:

Orazio ha detto...

Trama avvincente..

Anonimo ha detto...

E' un po' la trama della mia vita...

Vilco