La nebbia di tabacco narcotico
del Capitalismo
“ - A Milano, quando c'è la
nebbia, non si vede.
- Ah... e chi la vede?”
Alla cortese attenzione di chi,
pur smarrita o sconosciuta una residua
coscienza di classe, serbi ancora consapevolezza del proprio potere
d'acquisto.
Che benedizione, ne converrà, quei beni di consumo dal prezzo di mercato sprovvisto di scala mobile capace di attrarre, catechizzare, ogni potenziale (anche lontanamente: ci si può sempre indebitare) consumatore accecato dalla devozione!
Che benedizione, ne converrà, quei beni di consumo dal prezzo di mercato sprovvisto di scala mobile capace di attrarre, catechizzare, ogni potenziale (anche lontanamente: ci si può sempre indebitare) consumatore accecato dalla devozione!
Ed il pensiero vola alle sigarette, che
dalle buste di tabacco feticcio del post-proletariato più
imborghesito sino agli impalpabili pacchetti di bionde snelle come
dita d'ereditiere, erano e restano un bene, a ben vedere, di
sfacciato quanto ineluttabile lusso.
Non so né mi preme particolarmente
indagare quali ragioni macroeconomiche determinino quanto sopra, ma
mi dico ben lieto d'essermi trovato dinanzi a cotanto status quo
ante: credo, infatti, che se anche un giorno decidessi o non
potessi esimermi dal riprendere a fumare, rammenterei comunque con quale evidenza nel tabagismo si
manifesti quella rincorsa dei poveri alle terga dei ricchi: affannosa
quanto bestialmente paga dell'idea di consumare un bene di qualità
pari a quella riservata ad uno di quei privilegiati.
Siffatto “machiavello” potrebbe
estendersi, a rigor di logica, ad ogni altro bene: sbiadite immagini
di un savonaroliano Marcuse tra i nascenti malls californiani
mi ammoniscono, dunque, a non confondere questa mia presa di
coscienza con un'intuizione originale. Tuttavia una Coca Cola o,
chessò, una maglietta Nike non potrebbero vantare la medesima
valenza simbolica di un pacchetto di sigarette: l'una per il costo (capitalizzando la questua giornaliera può ambirvi anche un homeless), l'altra per la peculiare modalità di fruizione (qualsiasi
bramante acquirente, o mero “utlilizzatore finale”, potrebbe
risolversi ad economizzare per qualche tempo o, in mancanza, taccheggiare lungi dalle telecamere di un
circuito chiuso). Non faticherà a compenetrarsi nella pratica del
furtarello anche il più ligio cittadino occidentale medio: c'è lì qualcuno che non
ne abbia esperito, nello svezzamento di ribellismo adolescenziale, il
brivido proibito? Sono semmai gli straricchi e famosi, poi, a
trascinare quel peccatuccio veniale oltre la soglia della psichica
linea di confine.
Grato dunque alle multinazionali del tabacco per aver mantenuto la loro nebbia narcotica così inconfondibilmente densa, rivolgo, ahimé, le mie pene all'alcool: solo in parte lenite da una certa esperienza personale di non spiccata inclinazione al tabagismo come all'alcoolismo. Ma non meno inquietante resta la consapevolezza che, per un esponente del ceto medio-basso, nel più vicino discount con pochi euro al giorno ci sarebbe di che stonarsi per diversi mesi, forse anni: di certo sino ad un punto di non ritorno fisico prima che finanziario. Se poi un mio pari per estrazione sociale volesse altresì soddisfare la propria “sete” di socialità, dunque persuadersi di bere con minor disperazione perché non solo come un cane, certo gli si assottiglierebbero le possibilità – vedasi lo spread tra una FinkBrau del Lidl ed una Peroni di un qualsiasi bar – ma credo che anche in tal caso un soggiorno in ospedale o nuove amicizie tra gli Alcolisti Anonimi non sarebbero proibitivi per le sue tasche. Tutto ciò, in passato, ero portato a considerare, con un cecità sì vergognosa da non poterla più scordare, quale residuo, se non di democraticità, quantomeno di timida umanità nel freddo mondo monetizzato di questa economia di mercato. Come dire che se anche un morto di fame poteva ubriacarsi senza previamente dover delinquere, almeno quell'ambito del consumismo non era ancora così impietosamente elitario e ghettizzante. Consumismo è la parola magica per comprendere tanta idiozia (nella quale, neanche a dirlo, ero in buona compagnia): partivo infatti dall'ineluttabile presupposto di essere un consumatore, attributo talmente consustanziale alla mia fibra umana da non essere neanche più ravvisabile come elemento aggiunto e, almeno teoricamente, estraneo.
Quanto invece al tabacco, come noto
esso implica una modalità di consumo continua, o comunque costante,
unita ad un costo mediamente alto (checché ne dicano i “tardi”
rivoluzionari delle cartine) e ad una ben maggiore difficoltà di
illecita sottrazione.
Per giungere, infine, al fattore uncinamento:
quella predisposizione di una sostanza – e, per analogia, di una
qualsiasi merce – a creare dipendenza in un certo tempo e con una
certa stringenza, sono altresì scientificamente ignorante. Tuttavia
tenderei a non escludere che il desiderio di una bibita o di un capo
d'abbigliamento possa essere sapientemente reso non meno assillante del bisogno,
fisico e psicologico, individuale come sociale, di una sigaretta tra le dita (schiavitù che gode di illustri
nobilitazioni intellettualistiche: mi sovviene, tra la nutrita
schiera, un'ode di Oriana Fallaci alla sua marca preferita, tra
strali verso il tumore che la punì, previamente oltraggiata dagli
antidemocratici divieti di fumo nei luoghi pubblici della "sua" America).Grato dunque alle multinazionali del tabacco per aver mantenuto la loro nebbia narcotica così inconfondibilmente densa, rivolgo, ahimé, le mie pene all'alcool: solo in parte lenite da una certa esperienza personale di non spiccata inclinazione al tabagismo come all'alcoolismo. Ma non meno inquietante resta la consapevolezza che, per un esponente del ceto medio-basso, nel più vicino discount con pochi euro al giorno ci sarebbe di che stonarsi per diversi mesi, forse anni: di certo sino ad un punto di non ritorno fisico prima che finanziario. Se poi un mio pari per estrazione sociale volesse altresì soddisfare la propria “sete” di socialità, dunque persuadersi di bere con minor disperazione perché non solo come un cane, certo gli si assottiglierebbero le possibilità – vedasi lo spread tra una FinkBrau del Lidl ed una Peroni di un qualsiasi bar – ma credo che anche in tal caso un soggiorno in ospedale o nuove amicizie tra gli Alcolisti Anonimi non sarebbero proibitivi per le sue tasche. Tutto ciò, in passato, ero portato a considerare, con un cecità sì vergognosa da non poterla più scordare, quale residuo, se non di democraticità, quantomeno di timida umanità nel freddo mondo monetizzato di questa economia di mercato. Come dire che se anche un morto di fame poteva ubriacarsi senza previamente dover delinquere, almeno quell'ambito del consumismo non era ancora così impietosamente elitario e ghettizzante. Consumismo è la parola magica per comprendere tanta idiozia (nella quale, neanche a dirlo, ero in buona compagnia): partivo infatti dall'ineluttabile presupposto di essere un consumatore, attributo talmente consustanziale alla mia fibra umana da non essere neanche più ravvisabile come elemento aggiunto e, almeno teoricamente, estraneo.
Come ragionare di aborto senza
ricordare che il precedente logico è il coito con le sue declinazioni politicamente codificate - giusto per riesumare uno dei passaggi meno
compresi e dunque più vilipesi e poi rimossi tra gli scritti
pasoliniani. O, per chiudere con un illuministico volo su ali di
cera, come interrogarsi sulla opportunità di regolamentare la
prostituzione – tema caro, a latere delle canne, a certa swinging sinistra post-amsterdamiana, ove non fo mistero
di ambita militanza – disinvoltamente ignoranti di quali sapienti,
articolate forme di alienazione manterranno sempre moderno
quel mestiere cui si ammicca come il più antico.
Ma questa è una storia che meriterebbe spendita di ben altre parole...
P.S.
Il trattatello amatoriale sule
dipendenze di massa che spero avrete appena letto, ha volutamente
tralasciato la dolentissima nota televisione. Nelle più audaci
chimere di chi scrive, infatti, il passaggio al digitale terrestre in
Italia avrebbe potuto, data anche la peculiare contingenza economica,
lasciar spenti per sempre molti televisori: il che avrebbe
rappresentato una forma di ribellione - inconsapevole come nella
Fratelli di Ungaretti - anche alla vigliacca legittimazione del monopolio di
fatto che dai lontani '80 affligge il settore. Tuttavia chi comanda
non è al potere casualmente, dunque gli apparecchietti di
decodificazione sono spuntati in ogni dove a prezzi, fuor di
virgolette, popolari. Guidando così una fallita rivoluzione che, se
può consolare, quantomeno non avrà i difetti delle rivoluzioni
riuscite - per dirla con qualche protagonista di anni svaniti a piombo.
5 commenti:
Quando ho letto di "tardi" rivoluzionari delle cartine non ho potuto fare a meno di pensare a Jessica "The Cat"..
Sinistra snob..
Bravo Orlo! Come mi cogli tu certo incarnato stereotipo culturale, nessuno mai...
Vilco alla guida di un risciò
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