23.3.12

Ma al vostro posto non ci so stare

Credo che la scrittura automatica finita da mani surrealiste ai fotogenici rulli kerouachiani, sterminati come “la terra in cui lasciano piangere i bambini”, sia un sapiente misunderstanding più che degno della democraticità avvolta nella Democrazia di stelle e strisce.
Credo, altresì, che tutto ciò che viene alla pagina dovrebbe averne urgenza: beninteso, in una scrittura che non sia “divertirvi le serate estive con un semplicissimo 'Mi ricordo...'”. Tutto, sia esso vicino o distante dall'autore, nel tempo e nella biografia – com'è vicino nei versi che faccio seguire, nati da una triste nonché avvilente vicenda di cronaca locale che mi ha visto involontario interprete, fortunatamente assai marginale. Non credo, invece, di poter prescindere da quanto ci lascia d'ammonimento Houellebecq, ricordandoci che è indispensabile dare una forma al nostro dolore, una struttura entro cui canalizzarlo: altrimenti ci mangerà vivi, dall'interno.
Ciò premesso, il confronto con una materia maggiormente incandescente per prossimità al nucleo di ciò che ne muove le parole, è a mio giudizio un significativo elemento di valutazione di alcune capacità di colui che voglia considerarsi scrittore.
Nonché la ragione per la quale aggiungo questa mia ultima, come preferisco ritenerla, privata seduta di terapia del profondo - quantomeno più economica e meno imbarazzante di un vano stravacco su lettini di qualche impronunciabile designer di grido... munchiano.


CHI M'HA VISTO?

- La gente non capisce.
- Capisse, sarebbe ancora gente?”


Paziente, devoto si era ripetuto
che nella sua poesia
- tale iniziava a considerarla -
sarebbe sempre riuscito a sottrarre
all'incedere marziale del tempo,
nella scaltra diserzione d'ogni senso,
tutto il grottesco che, nutritosi del tragico,
ancora l'avrebbe toccato.

Ma fu una sera in cui credette di sentire
la cauta metrica di lontano venire
alle sue migliori parole vacillando
sotto ciò che la tv e qualche altro famigliare
gli eran riusciti, abili, a serbare.

Ad una presenza amica
- tale continuava a considerarla -
compendiava con distacco
che non avrebbe ammesso cinico
ma polemicamente dignitoso,
lo smarrimento, quest'ultimo forse definitivo,
d'una sua zia pazza quanto una strega.

Dopo troppo pochi, o soltanto inutili, anni
talvolta la sognava ritornare
affinché tutti pagassero l'affronto patrimoniale
e quant'altro suggerisse la sua vendetta mentale.
Così come non poteva curare
il ricordo di quell'amara tosse di sigaretta
posatagli con distratta boria da maledetta
su labbra come posacenere
ancora vuote d'una lingua per raccontare.
Una giovane zia ormai quasi vecchia
- alla buon'ora, sarebbe stato per dirsi
prima dei riflettori di quel Chi l'ha visto?

Dove se ne illustrava tra istantanee
puntualmente felici e piacenti,
prosa da sonora schiscéta di cronaca rionale,
studiata costernazione d'acquisiti parenti, scelti conoscenti,
un radioso futuro mai arrivato
o, per mano alla stagione buona, con la notte sfumato.
Sino alla più banale
sentenza d'imparziale
condanna depressivo-maniacale:
penetrato in case perbene, quel criminale,
da caro o fidato che non deve forzare
e, forse, nemmeno bussare.

In un crescendo di voyeuristica commozione
culminante nella faccia di suo padre
- non credeva l'avrebbe capito così poco
quanto, per contrappasso, prevedibile la madre.
Suo padre che dal divano mai vissuto
della casa dove a lungo s'era trattenuto,
appariva obbediente ad ogni indicazione
impartita da qualche funzionario
della ragion d'ascolto superiore.

Così da dar curvo corpo, stanca voce
a quella novella d'appendice
in cui un'invidiabile d'improvviso laureata
entrava nella Roma che conta
passando per una Pescara bene
non sì presentabile, tuttavia, d'annoverarsi
tra i creativi fremiti d'autobiografia sociale.

Una coerente iniziazione dannunziana
alla quale, imperdonabile, mancava
lieve accenno al latifondismo decaduto
nelle fiabe nere di nonna mai sopito.

L'amico che negli occhi rideva,
per intimo medio-borghese rispetto
nel volto ancora si conteneva,
dal ghiotto commento si asteneva.
Lasciandogli la convinzione,
che aveva bisogno di non ascoltare,
d'accingersi ad includerlo di legittima
nel saporito dissertare di prossime mense
sullo spettacolo di quella famiglia circense.

Lui, solo, dallo schermo non adulato
né sul giornale mai immortalato
come alfin la stessa PM, rimasta ignota ai congiunti
perché guastare il colpo di scena
al pubblico pagante della morale, quello sì era reato.
Inamovibile nel riserbo istruttorio, la Procura
seppe mostrargli il Codice ben più austero
delle succinte assistenti all'esame di procedura.

Lui che non ha, non deve aver cuore.
Perché, nipote, gli basta rivedere
ciò di cui lo costrinsero testimone
anni e adulti dominati dall'illusione
che quei bambini, non capendo,
rinunciassero ad ascoltare
giocando sino al tramonto dei ricordi
così assetati d'averla a bere.
Perché, figlio,
una madre che l'avesse ignorato
non avrebbe potuto dirla tale
né, un giorno, volerla cercare.

Lui che provò ad andarsene ragazzo,
con la disperazione a fargli da coraggio.
Lui che prova a restare uomo,
con l'ostinazione del rancore
a testamento del proprio pudore.

Perché la vera tragedia, nella tragedia,
la sola degna di memoria,
è la consegna della dignità
all'estorsione del dolore.


Alle parole cui si è costretti
dalle vite in cui si è costretti 

Nessun commento: