IL SENSO DI PUDORE
Donami
una vacanza di pietra
senza
memoria concreta
R.
mi diceva
di
chiamarsi Ros, lo preferiva:
per
sembrare meno figlia, meno terrona;
per
non ricordare, della sua terra,
solo
quella nelle unghie del padre;
solo
l'antico, devoto ossequio
all’istruzione
di sua madre.
R.
mi diceva
che
fu la mia barba ad amare per prima:
scoprendosi
paziente
nel
vederla crescere, mattina dopo mattina;
cercandola
dal suo usuale osservatorio d’angolo
come
un padre, fuori da scuola, la sua bambina:
una
barba tanto armonica nel viso
da
donarle pace rara, quanto un mio sorriso.
R.
mi diceva
in
fondo a quegli sguardi
le
parole che, lontana,
dentro
ai libri poi lasciava;
con
l’inesperienza necessaria,
avrebbe
detto qualcuno,
per
non ricordare, non ancora,
tutto
ciò di cui doversi vergognare;
cercando
i suoi pensieri
negli
stessi cieli con cui piangeva:
cieli
neri come occhi ancora vivi e veri,
che
gli anni avevano baciato
nell’età
che non avrebbe tradito.
R.
mi diceva
di
non riuscire a farsi lesbica:
l’idea
di cazzo la violentava,
ma
quell’umore fondo di fica…
più
del mare l’inquietava.
R.
mi diceva
di
pura nausea per i maschi,
tra
pusher assillanti
e
fidanzati scostanti:
ma
s’era fatta tutta l’astinenza,
riguadagnato
il suo starne senza;
ora
il naso le serviva a respirare,
e
‘trascendere’ tre volte al giorno
nel
duro cammino al plesso solare.
Non
più la svampita
matricoletta
trasferita
su
strade d’alba feroce:
strascinarsi
lento e pesante,
degno
del più sadiano Dante,
sino
ai confini del tramonto,
al
risveglio in anonimi sudari…
Fuori
già, ancora, il buio,
un
tg dal tinello comune,
l'ano
urlante da sciacquare,
in
specchi opachi ritrovare
quel
disprezzo sufficiente
per
continuare ad ammazzarsi
senza
mai sapere se morire.
R.
mi diceva
che
il dolore lo conosceva,
non
era quello a spaventarla…
ma
un attimo prima si fermava!
Mentre
la madre,
che
per qualcuno era esistita,
che
doveva averla tanto amata
da
donargliela, quella sua vita…
povera
mamma, ripeteva,
non
s'è mai chiesta perché vivesse
e
io non chiedo perché sia morta.
R.
mi diceva
che
il suo analista conveniva:
io
ero stato un incontro positivo.
Forse
per questo doveva partire.
No,
non lasciarmi!
Ma
solo andarsene:
troppe
macerie di vecchia vita
per
costruirne lì una nuova.
‘Che
vuol dire quando?
Anche
domani, se potessi!’
Una
città nuova, grande, dura.
Una
lingua da imparare,
le
sue forze sole su cui,
finalmente,
dover contare.
Ma
mi voleva vicino,
in
quel tempo che le restava,
perché
la amavo, lo sentiva.
…
E poi qualche indirizzo, magari!
Non
avevo provato l’emigrazione
anch’io
nella perfida Albione?
Le
ho detto arrivederci,
mi
ha risposto sì, ci rivedremo
– aggiungendo di capire:
immaginava
cosa sentissi
e
il mio dolore, lei, lo rispettava.
Due
giorni e l’ho risentita:
non
sarebbe più partita.
Aveva
temuto quelle emozioni,
quelle
cercate tutta la vita,
e,
cazzo, proprio adesso…
ma
no, non sarebbe fuggita!
Ora
potevamo stare insieme.
Andiamo
a farci un cocktail
preparato
come si deve:
offro
io… vabbè, mio padre!
Le
ho detto addio,
mi
ha sibilato di non stupirsi.
Né
ci mise molto a sparire,
dimenticare
quell'ossessione allucinante:
una
telefonata sussurrata, una lettera urlata…
lì,
dal fondo nero delle sue notti in bianco.
Mentre
io difendevo la coscienza
dal
ritorno dei misurati deliri
di
quel corpo troppo vuoto
per
non echeggiare in sua assenza.
Troppo
perché potessi solo pensare
di
non mandarla, non subito, a cacare;
troppo
perché potessi gratificare
il
mio tempismo elegante e scrupoloso,
forte
d'una robusta erezione
nell'onanistica
viva visione
del
suo addome asciutto e nodoso,
di
quella pelle gotica quasi trasparente,
di
quelle mammelle da madre
su
di un petto, un corpo intero, da figlia eterna.
In
quelle magre notti di giugno,
toccarsi
le punture con dita quasi fiere,
specchiarsi
nella finestra in posture da gonzo movie
– immaginando che da fuori qualcuno ti vedesse,
chiappe
all'aria, timida e avida a succhiare,
per
menarselo con furia di punizione,
ansimando
'Troia…' sino a venire senza godere –
Quelle
tue sole tette dolenti da scopare,
perché
lui non l’avevi ancora lasciato,
perché
mestruata non lo volevi fare…
finendo
per saziare, in un istante d’onnipotenza,
la
voglia cupa che ti affamava l'esistenza.
Torno
lì, oggi.
I
ricordi stretti, tesi a frugare
tra
i resti di ieri ciò che rimane:
sul
tuo mento gocce chiare
quanto
i tuoi occhi, a ringraziare.
Oggi
che la solitudine della mia pelle
persino
da te si lascerebbe lenire:
lei
che potrebbe scordare
chi
muove quelle dita
che
solcarono questa vita…
spoglia
d’odio, nel calore animale
cui ogni
uomo vorrebbe tornare.