31.3.12

COS'ALTRO


Sei amore.

Voglio dirlo, dirti amore
ignorando il muto accusatore
d'ogni mia censura interiore.

Sei amore.

Sin da principio,
come poter fingere
di non capire?

Sei amore.

Non poiché migliore
in qualcosa, di qualcuno:
mai dové nutrirti alcun peggiore.

Sei amore.

Intuivo, non potendo sapere,
quanto ora sento,
non potendo presagire.

Sei amore.

Giunto come quiete della ragione
superstite d'ogni tempesta interiore.

Esclusa dagli ultimi orizzonti
ogni terra del mio passato.

Solo arida memoria d'accusa
d'ogni vita laggiù perduta.

Dove, puramente, soffrivo
come mandando a futura memoria,
nel timore di dimenticare,
qualcosa che ancora non capivo.

Sei amore.

Perché non dovrò vederti svanire,
perderti per non doverti più cercare:
solo ripetermi, invano,
quanto tardi, perdutamente,
sia provare ormai che niente,
niente, nella tua assenza,
darebbe, al mio vuoto, esistenza.

Così, ora sai,
è amore ciò che sei.

Cos'altro potresti essere?
Io, cos'altro potrei dirti?


A Cris,
chi altro?


30.3.12

LETTERA ALL'IKEA SULLA MERITOCRAZIA


Se vero è che la vostra cultura
conosce austerità tanto ignota alla nostra
da poterla noi soltanto nominare
massacrando una lingua che non ci appartiene

Se vero è che i diritti civili
sono un prezzo realmente vantaggioso
da far pagare all'economia della vostra democrazia...

Vi chiederei di risparmiare
- civilmente, democraticamente -
a quei circa trentamila, leggo,
presentatisi per poco più di duecento posti,
questa ennesima, gratuita umiliazione.
Ed a quei poco più di duecento meritevoli,
la puntuale pubblica maldicenza
d'una impudica, indifendibile impotenza.

Vi chiederei di sacrificare, potendo,
del vostro profitto quell'infinitesimale
che finanzi una coatta liberalità:
lascito non solo nominale di civiltà
a “questo popolo ormai dissociato da secoli”,
che deve aver  impegnato al Monte di Pietà
finanche l'eredità della propria soavità.


A Cris,
che chiosò suggerendomi di far domanda


29.3.12

CRISTO - PRIMO TEMPO

"Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?
Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo."


Una volta vide Gesù.
Come un martire,
una volta lo guardò, fisso,
per non doverlo cercare più.

Primi ottanta, gli anni
della nuova, estrema alleanza:
battesimo d'ogni coscienza
nella sua attesa, compianta assenza.

Lui, bambino,
non ancora un tal sopore
da misconoscere quel Signore:
alla tv, Marcellino pane e vino.

Un tempo solo,
uno schermo livido
riflesso di quell'orfano
figlio del Padre.

Un primo tempo per ritrovarsi
con quel figlio solo:
di madre timorata, all'italiana,
padre dissociato, delegava.

Ormai, anche per lui
quel Signore era arrivato.
E l'avrebbe bestemmiato,
solo a coglierne significato.

Ma, recluso nella stagione
di più sincera, muta espressione,
scontava l'età dell'innocenza,
la libertà nella sua impotenza.

Solo un bambino: troppo stanco, emotivo.
Così esorcizzavano, allora,
ogni pallida paura. Lì gli albori 
delle prime chimiche comunioni.

Fu quella, forse, l'estrema stagione
di libera gioia in libero dolore:
per i pochi salvati dalla fantasia 
come i troppi sommersi dalla psichiatria.

- Candido, quel lupo nero
se li tenne per davvero.



27.3.12

ERANO ANGELI

Voi siete i grandi conservatori di questo ordine orrendo.”


Nelle mani del sacerdote
non trovaron schiaffi né carezze,
quelle mie inermi gote.

Attenzioni più articolate,
esternazioni altrimenti private,
non già, ch'io speri, gli sian mancate:
a me solo, in sorte, risparmiate.

Dunque il castigo, sempre educativo,
finì con l'esser commissionato:
troppo timida la mia aria,
o chissà, nei voli erotici di prelato.

La perpetuazione della morte di resurrezione
a zelanti angeli, così affidata,
della meglio gioventù immolata:
in ogni nostra quotidianità,
loro aurora sussurrata al gelo buio di Torah.

Loro, in me bambino,
più del Padre, uno e trino,
volto umano del Divino.
Nel nome di catechisti,
la custodia dell'ordine sociale
che, prima, nella nostra neocrazia
a me fu dato ricordare.

- Come ogni cella trasparente,
tanto fragile quanto tagliente,
d'un carcere bisognoso
d'amor solerte, scrupoloso.

Nel ruolo di responsabili,
stigmate già mature, fonde suture
cui devo il me immune
dalle sirene di piazze future...
narcisismo démodé
d'ogni parodica Comune,
isteria di naufragi
da dilettanti della rivoluzione
a professionisti della restaurazione.

P. S.
"Erano angeli" dà il titolo ad una raccolta di racconti di Luigi Bernardi, per casualità trovato anch'esso, tanto tempo fa: lieto di ripetermi, come accade per le più belle cose, il suo ricordo ne ha portati altri.




L'ordine a custodia del quale erano preposti quei volenterosi, si palesò presto nella sua primordiale natura elementare: forti o deboli, sopraffazione o persecuzione.
La forza era essenzialmente fisica, allora: data da un privilegio anagrafico, più raramente genetico. Tuttavia, equilibri più articolati, poggianti non sulla forza fisica ma sul ruolo sociale, già si iniziavano, inesorabili, a delineare. Ad ogni modo, fisicamente dominanti, i persecutori avevano a disposizione, al bisogno o al capriccio, una pressoché totale coazione. Trovai quindi significativo che, pur dotati di questo strumento, prediligessero ancora l'anonimato del buio, il riparo del branco, per godersi il nostro tormento.
Come pure eloquente la prevalenza, in età prepuberale, dell'elemento sessuale quale criterio forte di trasformazione conservativa di quell'ordine sociale, di cristallizzazione della sua iniquità consustanziale.
Si insisteva sulle dimensioni, esigue sino all'assenza, o sulle inclinazioni ad un uso invertito dell'organo del malcapitato. Contrapponendo, sempre a suo beneficio, la propria virilità ideale evocata da formule come 'Te lo ficco in bocca e ti sfiato'. Illuminante anche una simile ricorrenza omoerotica: forse presagio d'una qualche latenza, forse vocazione a carceraria, o meramente calcistica, militanza.
Poi, coerentemente, si transitava nella dimensione del femminile - reale o fantasioso poco contava - di provenienza del vessato. Madri e sorelle minuziosamente delineate come doverose latrine della loro, o altrui, bestiale natura maschile: a sottolinearne per contrasto il beffardo destino, la specchiata moralità domestica dell'aguzzino – summa illuminante tra le generose, efficaci tante: 'Tua madre scopa e la mia incassa, visto che bella società?'
A quel tempo mi illusi spesso, debolmente come in tutto ciò che facevo, che quegli incaricati, quei quasi adulti, fosserò lì a custodia non certo di una fumosa giustizia, per carità, ma quantomeno di una più tollerabile iniquità, a conservazione dello status quo stesso.
Magari gendarmi, come nelle nostre raffinate democrazie nominali, d'un astuto progetto di dissenso addomesticato, irresistibile miraggio d'ogni progressista assetato.
Ma, avrei scoperto presto, il Potere si preservava in altro modo. Agli schiavi non elemosinava alcuna condizione meno intollerabile: ne esplicitava semplicemente la natura ineluttabile. Ciò avrebbe evidentemente garantito, con sufficiente approssimazione, la cauterizzazione d'ogni sovversiva infezione, a partire dalla più debole protesta o esternazione. Lo compresi parte per acume, parte per l'eloquenza d'una cruciale circostanza.
Colonia estiva parrocchiale. Il muto buio della camerata vibra dell'insulto di fresco coniato per mia madre, o una sorella ipotizzata. A far da cassa di risonanza, l'isterico riso d'ogni agnello mio fratello risparmiato. Poi fulminei, in successione, la mia replica - non trasversale ma a centrato bersaglio personale - e il bruciante schiaffo d'un solerte ufficiale, ogni velleità sovversiva giunto a scongiurare. Tardo confidare nella solidarietà d'alcuna vittima. A parole forse, ex post, in qualche "lacuna del dolore", non certo nel momento del fisico bisogno: quando l'unione qualcosa avrebbe potuto risparmiare, non solo compatire, dopo, e consolare.
Fedeli all'ipotetico uomo di Primo Levi, ci preparavamo così alla solitudine incolmabile che contraddistingue l'individuazione dell'età adulta. Se c'è un lascito necessario, in quella sua celebrata discesa in lager, al di là di speculative retoriche - filo-sioniste o piagnucolanti fini a se stesse - è l'aver dimostrato, con encomiabile pacatezza di scienziato, la carogna in fondo all'uomo, quale che sia il suo stato.
Bei tempi, per tornare ai miei. Espliciti, eloquenti, esemplarmente coerenti.
Inutile precisare, quell'aspirante adulto giunto a conservare, non mostrò mai di cogliere il senso del suo agire: sarebbe stato del resto inutile e dannoso, per chi deve solo eseguire.
Nonostante ciò, gli rubai un'esitazione che mi fece quasi sperare, il mattino dopo nel bagno comune.
Fece infatti fatica ad incontrare il mio sguardo, che pure al tempo era liquidamente sfuggente - anche per la fatale prossimità del pianto. Certo, lo disprezzai comunque: seppi mantenere, almeno dentro, l'unica possibile posizione che mi potesse far uomo, se non farmi onore. Ma oggi che la consapevolezza, se non della portata, della natura dei danni subiti, mi dona una qualche prospettiva, recupererei quel seme di speranza che i suoi occhi bassi sembrarono accogliere nella circostanza. Augurandogli, nella pena residua da scontare, un neonato albero da cui, se non fuggire, almeno intravedere il reale, per scoprirlo vasto ed implacabile, com'è in poesia il mare. Un seme che, mi piace pensare, nacque dalla mia testa: questa testa bassa, che in fondo non si volle piegare.


A V. e C.,
primi, inconsci
custodi del mio inconscio

Rigopiano, 1986 – Pescara, 2011
(Perché, parafrasando un Pablo,
non ha richiesto ore o giorni, quest'opera,
ma l'intera mia vita)

26.3.12

L'anarchia sociale dell'arte

"L'arte ha il dovere sociale di dare sfogo alle angosce della propria epoca. L'artista che non ha accolto nel fondo del suo cuore il cuore della propria epoca, l'artista che ignora d'essere un capro espiatorio, e che il suo dovere è di calamitare, di attirare, di far ricadere su di sé le collere erranti dell'epoca per scaricarla del suo malessere psicologico, non è un artista."


Antonin Artaud  

25.3.12

"E la vita duole, quanto più la si gode e quanto più la si inventa."


Inammissibile finché si vuole,
ma qualcuno, signori, ancora muore.


Alla memoria di Antonio Tabucchi (1943 - 2012)

23.3.12

Ma al vostro posto non ci so stare

Credo che la scrittura automatica finita da mani surrealiste ai fotogenici rulli kerouachiani, sterminati come “la terra in cui lasciano piangere i bambini”, sia un sapiente misunderstanding più che degno della democraticità avvolta nella Democrazia di stelle e strisce.
Credo, altresì, che tutto ciò che viene alla pagina dovrebbe averne urgenza: beninteso, in una scrittura che non sia “divertirvi le serate estive con un semplicissimo 'Mi ricordo...'”. Tutto, sia esso vicino o distante dall'autore, nel tempo e nella biografia – com'è vicino nei versi che faccio seguire, nati da una triste nonché avvilente vicenda di cronaca locale che mi ha visto involontario interprete, fortunatamente assai marginale. Non credo, invece, di poter prescindere da quanto ci lascia d'ammonimento Houellebecq, ricordandoci che è indispensabile dare una forma al nostro dolore, una struttura entro cui canalizzarlo: altrimenti ci mangerà vivi, dall'interno.
Ciò premesso, il confronto con una materia maggiormente incandescente per prossimità al nucleo di ciò che ne muove le parole, è a mio giudizio un significativo elemento di valutazione di alcune capacità di colui che voglia considerarsi scrittore.
Nonché la ragione per la quale aggiungo questa mia ultima, come preferisco ritenerla, privata seduta di terapia del profondo - quantomeno più economica e meno imbarazzante di un vano stravacco su lettini di qualche impronunciabile designer di grido... munchiano.


CHI M'HA VISTO?

- La gente non capisce.
- Capisse, sarebbe ancora gente?”


Paziente, devoto si era ripetuto
che nella sua poesia
- tale iniziava a considerarla -
sarebbe sempre riuscito a sottrarre
all'incedere marziale del tempo,
nella scaltra diserzione d'ogni senso,
tutto il grottesco che, nutritosi del tragico,
ancora l'avrebbe toccato.

Ma fu una sera in cui credette di sentire
la cauta metrica di lontano venire
alle sue migliori parole vacillando
sotto ciò che la tv e qualche altro famigliare
gli eran riusciti, abili, a serbare.

Ad una presenza amica
- tale continuava a considerarla -
compendiava con distacco
che non avrebbe ammesso cinico
ma polemicamente dignitoso,
lo smarrimento, quest'ultimo forse definitivo,
d'una sua zia pazza quanto una strega.

Dopo troppo pochi, o soltanto inutili, anni
talvolta la sognava ritornare
affinché tutti pagassero l'affronto patrimoniale
e quant'altro suggerisse la sua vendetta mentale.
Così come non poteva curare
il ricordo di quell'amara tosse di sigaretta
posatagli con distratta boria da maledetta
su labbra come posacenere
ancora vuote d'una lingua per raccontare.
Una giovane zia ormai quasi vecchia
- alla buon'ora, sarebbe stato per dirsi
prima dei riflettori di quel Chi l'ha visto?

Dove se ne illustrava tra istantanee
puntualmente felici e piacenti,
prosa da sonora schiscéta di cronaca rionale,
studiata costernazione d'acquisiti parenti, scelti conoscenti,
un radioso futuro mai arrivato
o, per mano alla stagione buona, con la notte sfumato.
Sino alla più banale
sentenza d'imparziale
condanna depressivo-maniacale:
penetrato in case perbene, quel criminale,
da caro o fidato che non deve forzare
e, forse, nemmeno bussare.

In un crescendo di voyeuristica commozione
culminante nella faccia di suo padre
- non credeva l'avrebbe capito così poco
quanto, per contrappasso, prevedibile la madre.
Suo padre che dal divano mai vissuto
della casa dove a lungo s'era trattenuto,
appariva obbediente ad ogni indicazione
impartita da qualche funzionario
della ragion d'ascolto superiore.

Così da dar curvo corpo, stanca voce
a quella novella d'appendice
in cui un'invidiabile d'improvviso laureata
entrava nella Roma che conta
passando per una Pescara bene
non sì presentabile, tuttavia, d'annoverarsi
tra i creativi fremiti d'autobiografia sociale.

Una coerente iniziazione dannunziana
alla quale, imperdonabile, mancava
lieve accenno al latifondismo decaduto
nelle fiabe nere di nonna mai sopito.

L'amico che negli occhi rideva,
per intimo medio-borghese rispetto
nel volto ancora si conteneva,
dal ghiotto commento si asteneva.
Lasciandogli la convinzione,
che aveva bisogno di non ascoltare,
d'accingersi ad includerlo di legittima
nel saporito dissertare di prossime mense
sullo spettacolo di quella famiglia circense.

Lui, solo, dallo schermo non adulato
né sul giornale mai immortalato
come alfin la stessa PM, rimasta ignota ai congiunti
perché guastare il colpo di scena
al pubblico pagante della morale, quello sì era reato.
Inamovibile nel riserbo istruttorio, la Procura
seppe mostrargli il Codice ben più austero
delle succinte assistenti all'esame di procedura.

Lui che non ha, non deve aver cuore.
Perché, nipote, gli basta rivedere
ciò di cui lo costrinsero testimone
anni e adulti dominati dall'illusione
che quei bambini, non capendo,
rinunciassero ad ascoltare
giocando sino al tramonto dei ricordi
così assetati d'averla a bere.
Perché, figlio,
una madre che l'avesse ignorato
non avrebbe potuto dirla tale
né, un giorno, volerla cercare.

Lui che provò ad andarsene ragazzo,
con la disperazione a fargli da coraggio.
Lui che prova a restare uomo,
con l'ostinazione del rancore
a testamento del proprio pudore.

Perché la vera tragedia, nella tragedia,
la sola degna di memoria,
è la consegna della dignità
all'estorsione del dolore.


Alle parole cui si è costretti
dalle vite in cui si è costretti 

21.3.12

SUL CADAVERE DELL'ISPETTORE ROGAS


"L'errore giudiziario non esiste."


La Sicilia, il profondo Sud
- ossimoriche terre di riforme impossibili
e di compromessi ineluttabili,
dacché ricordi mi hanno lasciato
solo brividi o accidia mortale.
Quanto quella viscerale canicola
che qualcuno, come Sciascia, seppe ammettere esistenziale.

20.3.12

POETI, AMLETI


Rispettabile Editore Ideale,

Vorrei scusarmi anticipatamente per la probabile prolissità che potrei di seguito concedermi, ma non trovandone al momento ragione, all’infuori d’una piaggeria delle più lise e muffite, temo sarà costretto a subire, per ventura resistendo nella lettura, la mia sconveniente veste sociale, prima ancora che autoriale. In fondo, mi sovviene in tempestivo aiuto, i casi sono due - mai che nella realtà si limitino a due, ma fingiamo ancora per una volta, vuole? Segnatamente, sarò una delle sue prossime alee imprenditoriali, oppure la sua ennesima seccatura. Nel primo caso non dovrebbe così volubilmente stancarsi di leggermi, anche solo al ricordo di quanto le sto costando; nel secondo, mi avrà ormai già zittito a morte in un pantagruelico distruggi documenti - che immagino troneggiante negli open spaces delle più prestigiose case editoriali - o tutt’al più impilato su ossuti, volenterosi avambracci di qualche stagista al lordo di rimborso spese: dunque il peso delle mie gracili idee non graverebbe che su uno sprovveduto fabbro delle proprie catene.
Qualora giunti a questa pietra emiliana del nostro comune cammino non fosse ancora così riluttante a seguirmi, sarei tentato di farle una confessione che, in quanto sbattezzato, non avrei più cuore di rivolgere nemmeno al mio mite insegnante di religione: avrei decisamente bisogno di un dottore prima che di un editore. Ma non dispero che il secondo possa aiutarmi a guadagnare il primo. Dico ciò non per incontinenza di ovvietà e cattivo gusto tali da giuocarmi l’unta carta d’un maledettismo de noantri - à la Asia Argento Angelo della vendetta de li Parioli, che so - ma per palesarle senza ulteriori indugi la ragione principale di questa mia. Avvertendo, fosse anche solo nel bisogno, di poter confidare nella sua capacità nonché volontà di comprensione, non è calcolato pietismo, che risulterebbe vanamente imbarazzante, a portarmi ad accompagnare le mie narcisistiche ambizioni alla pubblicazione con un inquietante ma direi fecondo interrogativo, rivolto a me prima che a lei.
La tedio, così, non tanto per chiederle un giudizio estetico-commerciale sulle mie fatiche poetiche, che pure scaltramente allego, quanto per domandarle se trovi, in coscienza, ragionevolmente calcolato il rischio che un aspirante autore stampato corre, son convinto, consegnandosi volontariamente alle stampe. Se dunque la possibile e certamente mobile gratificazione narcisistica - che, misogino quanto basta, mi figuro femmina dunque, in potenza, scientemente mignotta vigliacca fiera di selva oscura - valga il moccolo della probabile e forse inconsolabile distruzione di quell’io poetico che sia sì frivolo ed incauto da avventurarsi tra le affilate grinfie laccate dell’industria culturale, al pari di un’alticcia matricola di Comunicazione nella sua prima Via del Campo fuori Porta Maggiore. In soldoni, se a vostro giudizio nulla di utile e tantomeno necessario ci fosse - con riguardo alla sua identità letteraria, s'intende - tra ciò che di meglio credo d'aver fatto finora della mia vita, dove potrei rinvenire altra vita, e prima ancora forza di cercare, per costruire tenacemente dalle rovine o, con non minore stoicismo, intendere e ritenere di dover rinunziare?
- Già, ma della sua vita cosa mai avrà fatto, costui? - fossi in lei mi chiederei. Semplicemente, le risponderei, provare a non lasciare che ella, con i suoi accadimenti e i miei sentimenti, passasse invano, svanisse in fretta lontano, portando con sé il mio diritto di ricordare, oltre al dovere di capire. Mi rendo altresì conto di fornirle, con sincera vocazione d’innocente agnello sacrificale, un’imbarazzante pezza d’appoggio - per dirla con l’indolenza d’un funzionario ministeriale - ad un eventuale diniego che al sottoscritto non ammetta repliche, né da lei pretenda dazio in termini di sensi di colpa o tremori di sorta tali da guastare il mattutino dispiegare la cronaca locale, magari al sorseggio del suo cappuccio chiaro usuale. Ma così offenderei, me ne rendo conto tardivamente, la sua persona prima che la sua professionalità: dunque la pregherei di non tener conto di siffatta precisazione. Del resto, se ci si dovesse ridurre a pubblicare solo per scampare all’attesa sfibrante che l’aspirante autore si uccida - o uccida il suo aspirato editore - mosso dall’intollerabile frustrazione d'una più che nevrotica ambizione, nelle librerie non ci sarebbe più posto per la genesi dei dannunziani amori presidenziali come da afrodisiache cronache di Terza Camera del Parlamento.
Quanto ai miei paesaggi interiori presso i quali la invito a conclusione, ho scelto, di concerto con la mia sola non solo lettrice affezionata, mia fidanzata, di eleggerne solo alcuni scorci. Ne ho estratti nove più uno, tra simbologia medievale e scaramanzia meridionale: dovuto tributo all’ineluttabile correità del caso nel lacerare il silenzio dell’anonimato, oltre che vitale autoinganno a posteriore consolazione.
- Ho scovato con monacale zelo quelle più inadatte, dannazione, ma perlomeno non ho consegnato ad un rifiuto, invero alquanto annunziato, che un infinitesimale del mio ego disarmato! Potrò così continuare a ripetermi, nel familiare silenzio ritrovato di quel telefono che non squilla mai, “e piccole dosi di brandy...”

Con istintiva fiducia,
la sola concessami in quanto poeta.

17.3.12

FREUD? YES SON? I WANT TO KILL YOU!

"L'orrore ha un volto... e bisogna farsi amico l'orrore."


Mai mi darei, volontario,
alle mani di chi sostiene
poter guarire ciò che si ha dentro.
Conosco abbastanza l'incubo 
da riconoscervi il gemello soffocato
del desiderio: guai a svelarlo,
svegliandolo.



11.3.12

Danze di foglie morte

Perché gli anni sono passati prima che nascessi?”


Si allontanò.
Solo un poco, per avere una visione d'insieme.
Scrutava avido, non senza un certo pudore
per quel suo seme pallido, troppo liquido,
che strisciava ancora, senza quasi lasciar traccia,
nei solchi fondi delle costole.
Che indugiava nel bacino, a formare un piccolo stagno torbido,
circolare come la compiuta armonia dell'ombelico.

Pennellate à la Pollock, due gocce dense come succo di pera
- ricordò con tenerezza, quello che lei preferiva -
segnavano la clavicola affilata come osso pubico di procione,
e lo zigomo deliziosamente tempestato di lentiggini ambra.
Quelli dovevano esser stati i primi schizzi:
sempre candidamente audaci
come gli ultimi, poi, così opachi e tenaci.

Si scosse, imponendosi di iniziare a scattare – pellicola o digitale?
Un tiepido, materno conforto gli giunse incontro:
sembrava provenire da giorni lontani,
da quei suoi giorni ordinatamente uguali
attraversati da qualcuno inaspettatamente festivo
che mai riconosceva, affannandosi invano per non tardare.

Tornò a fissarla, lei che per ora non si sarebbe mossa:
non sembrava averne l'intenzione – sorrise tagliente da goffo pappone.
Le si stese accanto, godendosi ancora, come in quelle estranee mattine,
ancora un poco di tepore senza il nero pensiero, ora,
di quando non ci sarebbe stato che vuoto
ad attenderlo lì fuori.

Per un tempo dalla clemenza apparentemente sconfinata,
un tempo che sembrava rifonderlo di tutto quello andato, riempito e poi gettato,
contemplò quel segno concreto, vitale, della sua presenza al mondo.
Ricordando di non esser fatto per gioire,
per assaporare senza un sentore di colpa, un indizio di peccato:
non potendo dimenticare che presto l'avrebbe lasciata, o l'avrebbe pensato.

In fondo, ormai svuotato, era in tregua, almeno con se stesso.
Ma poi, quanto ci sarebbe voluto perché si riempisse ancora,
d'odio, seme, paura?
La sua natura era crudele: ormai lo sapeva bene.


Alle domande dei sogni
alle risposte della vita