30.7.11

MIO FRATELLO È FIGLIO UNICO

E il vapore acqueo delle nostre illusioni con le costole fragili come certi balconi meridionali”


Mio fratello è figlio unico, Rino Gaetano l'ha scritta a Roma, da troppo poco. Lì, dal fondo delle campagne, dal nulla puro, mai tolto al tempo del sud abbandonato, gettato nel piazzale e i cavalcavia della stazione Tiburtina, le dieci di una domenica sera. 
E partiva l'emigrante, all'alba, un poco ancora scaldato da un bus che arrancava, sofferente e dignitoso come quei volti muti, di solchi antichi; poi un treno fragile, lento come un giocattolo da soldati. Lì, negli occhi e in cuore a non poter lasciare, l'ultima notte a casa dell'amore suo Mariuccia, lei che facevano l'amore, l'ultimo, e non riusciva ad ingoiare le lacrime, non riusciva a dire niente, che anche al sud c'erano donne, ancora, che a volte non avevano il coraggio di dire niente. 
E forse si erano addormentati, in quella miseria feroce di tempo concesso, o forse rimasti svegli, ognuno con la propria solitudine, la solitudine di quando si crede, tremanti, che l'altro dorma. Poi, restava ancora un niente, ma troppo per restare a guardarlo arrivare così impotenti, lì stesi nel buio. Così lui è andato verso la porta e lei dietro, forse con la dignità antica di cui solo le donne al sud erano ancora capaci; e l'ultimo abbraccio, fondo, vero, come chi si tiene quando non si può più ingannare: sarà davvero l'ultimo, e vorrebbe che finisse lì, insieme, in quella stretta da non dover più lasciare - chissà, forse a qualcuno che davvero si è saputo amare è stata donata quest'unica gioia di morire. Lì, con l'uscio della porta ancora da solcare, con quella notte dietro, sole stelle senza luna, e la collina, immortale corpo steso d'orizzonte.
E poi ognuno, solo, già pensava a domani: non a tutto il resto della vita, che in quella sera era solo una condanna, una strada lunga e vuota e dolorosa, no, solo a domani, solo a dove trovare la forza per continuare, soffocare o lasciar scivolare sul dolore quella quaresima di minuti, di ore.
Ed arrivò, domani, insieme a Roma e la stazione Tiburtina alle dieci di sera e i gatti e la monnezza e pizze fredde e tabacchini e non si spiega, nun se pò spiegà Roma a Tiburtina de sera, nun se po' spiegà Roma, nun se spiega. Roma se vive. O se more.


29.7.11

ATTO DI DOLORE

Come nell'ordine della natura è necessaria la bestia feroce 
che mangia tutto ciò che incontra sulla sua strada, così sei necessario anche tu. ”


Beato sia il pedofilo,
santo l'assassino,
benedetto lo stupratore.

Lode a tutti coloro
la cui sola esistenza
sazi il nostro disgusto,
assolva la nostra coscienza.

Nei loro occhi la nostra confessione,
dalle loro mani la nostra assoluzione:
il rimorso ormai lontano,
insieme al ricordo di ciò che siamo.

Benedetto chi prenda in sé
dall'uomo la colpa peggiore,
lasciandogli solo il perdono, riflesso 
sul suo volto migliore.

28.7.11

I CIELI DI MIA MADRE

"Anch'io; ricordo, ma passò stagione"

Un cielo d'estate
fattasi inverno
non sapendo più attendere,
non volendo più temere.


In quel blu, quel bianco
levigati da un solo vento,
l'ultima tua viva emozione:
quel cielo, materna promessa
d'eterna immaginazione.

27.7.11

GOODBYE

Ieri ho rivisto Giulio Corda:
quale insospettabile, tra voi, non lo ricorda?
Cauti, se non discreti, ci siamo ritrovati
nel ciondolio degli spaesati
radi avventori d'un magazzino, popolare
al tempo in cui, ancora, si poteva risparmiare.

Primo pomeriggio. Scorcio d'un inedito
luglio grigio metallo.
Come la California, quella vera:
bianco calore senza scampo
della solitudine più nera.

Giammai ammettendomi commosso,
mi confesso sinceramente scosso
- complice, forse, la mia vetusta intolleranza,
forse la suggestione poetica di circostanza -
da quella sottile, struggente
cesura, sì stridente
con l'orgia dei peggio cliché
ch'egli forse assai sudò nel sublimare in sé:
“Scapigliati zona Prati"
- compendio direi esauriente
anche per il non residente.

In quegli avari, densi minuti
che bizzarramente intimi ci hanno voluti;
lì, esitanti, muti, nel vuoto alogenato
di qualche chilometro quadro climatizzato:
beatnikamente scarno, crudelmente areato,
spontaneamente malvestito, l'ho trovato.

Finalmente denudato di quella sciatteria astuta 
certo cara
a qualsiasi scaltra ninfetta pettoruta,
forse amara
a qualche segaligna devota sprovveduta.

Per un giorno
mi ha reso un ritorno
senza stizza né vergogna
al me matricola in Bologna:
le goffe liriche a memoria, a matita
nelle note di qualche tascabile chissà dove, ormai, sbiadita.


26.7.11

CRISTO, PRIMO TEMPO

“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?
Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”


Una volta vide Gesù.
Come un martire, una volta
lo guardò, fisso
per non cercarlo più.

I primi ottanta: gli anni
della nuova, estrema alleanza;
il battesimo della coscienza
nell'improvvisa compianta assenza.

Lui non ancora vinto, bambino,
dal sopore, nel televisore
riconobbe quel Signore.
Sul primo, Marcellino pane e vino.

Un tempo solo,
un livido schermo
per misurarsi su quell'orfano
figlio del Padre.

Un primo tempo per riconoscersi
in quel figlio solo:
di madre così timorata, italiana;
di padre che, dissociato, delegava.

Ed anche per lui, ormai,
quel Signore era arrivato.
Lui che l'avrebbe bestemmiato,
solo a comprenderne il significato.

Ma era recluso in quella stagione
della più sincera, muta espressione;
scontava la sua età dell'innocenza,
la libertà in tutta la sua impotenza.

Era un bambino, solo: stanco, emotivo.
Così si esorcizzava allora
ogni più pallida paura; così agli albori
delle prime chimiche comunioni.

Forse fu proprio quella l'ultima stagione
di libera gioia in libero dolore.
Tra salvati dalla fantasia
e sommersi nella psichiatria.

Candido, quel lupo nero
che se li tenne per davvero.


24.7.11

LA SOLITUDINE DELL'EREZIONE

Nel porno di ultima generazione i corpi si toccano il meno possibile: notatelo, non è casuale. Alla ragione strettamente tecnica di mostrare ogni dettaglio quanto più chiaramente, se ne aggiunge una puramente esistenziale, direi: l'inconscia e dunque ancor più intima, radicata, constatazione dell'impossibilità senza ritorno d'ogni umana relazione.

23.7.11

UTOPIA

Che l'umano continui pure,
devoto all'inseguire 
l'eterno richiamo animale
interno.

Ma che un giorno, 
qualcuno vada all'altro:
non si allontani soltanto
da se stesso.


22.7.11

LA SOLITUDINE DELLE FERMATE

Sono uno sgorbio guardone ma perlomeno non mi espongo”


Avevi pochi anni.
Ed io credevo di vederli tutti:
a lungo li avevo guardati,
ben prima di vedere te.

Pochi ai miei occhi freddi,
timidi quanto avidi,
lasciati vischiosi in superficie,
sottilmente venefici
come micropolveri in estate.

I miei occhi in nulla altri
dai tanti altri ruvidi, taglienti
che quei pochi anni ti avevano educato
ad accogliere ormai sulla pelle.

Anni distratti ma abili a schizzare netta
la curva delle tue bianche spalle:
così sottile, perfetta
da piegare sotto quello che
gli anni a venire avrebbero portato con sé.

Nei nostri sguardi miserabile fratellanza
d'invidia, desiderio, rimpianto:
lisi veli spanti su vite perse lontano,
vite non trovate; nostalgie mai maturate.

Tu eri diversa, il tuo intero essere una smagliatura
nell'arrogante corpo smagliante
delle tue simili oscenamente oltraggiate
da quella provinciale, indolente estate.

Tu eri persa, in un giorno solo
negato il ciclo rassicurante del dovere;
quel mai chiedere, sapere: 
mangiare, dormire, obbedire se
siano questo la vita, e perché.

Tu così intima alla timidezza,
presto anche al dolore,
per non avere già negli occhi, in cuore
l'immota processione di quelle mute ore:
bianche, come le tue spalle sole.

Sembrò sfuggirti un'emozione: pura apprensione
per il numero ancora anonimo in fondo al viale;
oscillavi cauta su quella gamba sola, sfortunata.
Patetica come non mi volli dire,
patetica come l'attesa di quel bus, tardivo
quanto un padre adottivo.

E come non voglio scrivere, ora,
ricordare ciò che sarebbe facile,
falso dimenticare:
nell'eterna distanza mai colmata
che mi negava la tua fermata.

Potrei, avrei potuto
se non fosse arrivato tardi,
se non fosse mai arrivato
ciò che non so dire, ma avvizzisce il cuore
o quello che ne rimane.

Se solo non avessi maledetto il tuo bus,
che ti portasse via, tenendomi a fissarti
e niente sentire di ciò che eri:
solo la traccia divertita
su cui la vita in te si era accanita.

Solo la tirannia della mia erezione,
in quell'organo che mi svuotava il cuore,
nutrendosi del suo sangue, strappandogli calore.

Ed era un bus orrendo, anche quello:
benedetto quando ti prese in sé, svanendo
in qualunque altrove ti abbia portato
insieme al paterno dolore del mio peccato.

Tu, mai esistita come la muta fantasia
d'umano, rinchiusa in questa poesia.


A Dio,
che ha una buona scusa per non esserci

21.7.11

CERVELLI IN FUGA

Non m'inorridirà mai abbastanza,
il cannibalismo parentale. 
Ricordo a scuola, la seconda della classe:
vanamente griffata, precocemente cadente,
capelli unti e, ben oltre la prima ora, fiato pestilente.

Studiava tedesco, credo come svago imposto:
forse per questo sputacchiava così lontano
nell'eloquio nativo pur misurato e composto.
O forse era solo per l'ammaestrata concitazione
nel ripetere e poi liberarsi, lesta, della quotidiana lezione.

Quasi credibile, infine, la spigliatezza 
con cui anticipava ironicamente
l'appellativo che altre le avevano riservato:
Maria, per le amiche MariaSfiga.


Al mio buon amico Orlo,
e la sua incrollabile vocazione 
alla fiducia nelle persone

20.7.11

AI GRANDI DELLA MIA TERRA

"Geniali dilettanti in selvaggia parata, ragioni personali, una questione privata."


Voi, bambini d'isteria fremente
in quell'unica guerra permanente:
ieri altisonante, oggi silente.
Quella stessa pulizia affidata
alla cecità ammaestrata, ieri
di devoti bombardieri;
oggi a droni, igienicamente guidata.

Voi, vecchi nel pallido giardinetto
spargere ore rafferme, sbriciolate
chini sul proprio magro diletto;
padri rinnegati a quest'orda immigrata
gettare tozzi di vita: a cottimo, a giornata.

Voi, sofistico ammantare
d'una cinica, succinta morale
la nudità vergognosa
della propria indifferenza, sdegnosa
verso chi non sa rubare,
chi non vuole odiare,
ma con grazia in voi barbara
può solo mendicare
quel goccio di calore da iniettare.

Voi, ossessionati da un disgusto nuovo, 
uno che ancora non venga a noia;
l'odio vergine che vi sappia nutrire,
strapparvi al vizio antico: 
guardare e mai sapervi compatire.

Nelle maree di questa bile impotente
io, dinanzi al fragile potere che difendete:
l'autorità di tenere a battesimo il Male e il Bene;
strenuo dominio fatuo, consolante,
ultimo possibile potere che tanti, troppi
illudeste o si illusero di avere.

Qui, nella mia vuota pietà
oscena quanto il vincolo di appartenenza
a questo muto patto di violenza,
nella sua atroce, arcaica necessità.

Dannati, voi, avvelenati
a lasciarne traccia, evidenza:
voi che di nulla potrete deviare
il cieco corso del vostro passare.

Voi, infiniti graffi alla sabbia
crudeli di un'infanzia tolta al tempo,
immota, tremante per un solo fatale
respiro d'acqua o di vento.


19.7.11

SONO IO

Sono io che ho ucciso Chet Baker: l'ho ucciso con le scale.”


Sono io. 
Io che tutto divoro.
Vorace, bulimico, rapace.
Io che non amo, idolatro.
Che non so sfiorare, ma stringere. Non abbracciare, solo afferrare.
Io che ho pianto, colmato i miei occhi
senza una lacrima interiore;
senza nulla voler vedere,
sapere del dolore.
Io e il mio solo collettivo commiato
sugli stessi corpi che ho ucciso,
nella viltà estranea all'esecutore,
propria del mandante riparato.
Sono io che ho ammazzato Kurt Cobain.
Due volte l'ho immolato:
con le mie magliette compulsive, le mie effimere chitarrine, ieri
con la mia ironica distanza adulta, oggi.
L'ho spinto, inetto, fuori dal mondo,
per poi sottrargli la stessa dignità del ricordo.
Via dai miei occhi, vuoti
come questo mio petto.
Sono io, lo stesso
che ha ferito, scoppiato Bologna:
mitizzata, depredata, infine
con vaccino di congedo addestrato,
senza voltarsi, lasciata. 
“Tenetevi Bologna, me ne vado.”
Ora guardali, quelli ancora vivi.
Quelli rimasti
perché, come te, non avevano dentro
nulla più che si potesse uccidere.
E l'unica, sola tristezza
che ora
potrebbe scuoterti, salvarti
è lo spettacolo della tua stessa vita:
immutata, nella sua tenace magrezza.

Sono io.
O no, forse
sei solo tu.


18.7.11

DI UN'ISOLA

Miracolo dell'amore - come dell'arte, in fondo
è la sua pura possibilità
superstite in questo mondo.
Non l'estranea facoltà
di renderlo meno immondo.


A Cris, 
"evidenza, unica, della mia vita"

17.7.11

SIFONE

Per lungo tempo mi sono affrettato
a strofinare lo spazzolone nella tazza
pima che si spegnesse lo scroscio dell'acqua.

Similmente, mi sono affannato a rinascere
prima che si richiudessero quegli scorci di morte
che la vita, nei ciclici travagli, ci rivela.

Farmi ostinatamente un uomo nuovo, ogni volta,
fosse anche per nausea, vergogna di quello vecchio.
Imparare, come si ama ripetere, dagli eventi
prima che in noi si siano irrimediabilmente spenti.

Un vezzo, in fondo, come ogni autentica illusione:
privo di utilità pratica, quell'atteggiamento
mi ha sedotto per la sensazione pacificante
di operare nella mia vita con efficienza igienizzante.

16.7.11

PRIMO GIORNO: POETICA

Forse anche per qualcuno di voi verrà un giorno in cui il livore sostituirà l'esclusione, la rabbia il dolore. 
Un giorno in cui sarà definitiva, sottratta ad ogni residua, tenace illusione, la morte della vostra speranza nel mondo, posteriore o contemporanea alla vostra morte sociale. Quel mondo che non è riuscito a modellarvi utilmente ai suoi scopi, come genitori stremati finalmente vi lascerà in pace: lo sentirete, vi ignorerà, inutili, e voi ringraziando saluterete. Ciò non basta, naturalmente, perchè possiate iniziare a pensare, addirittura a parlare: dovrete prima aver accumulato sufficiente rancore verso ciò che vi circonda, voi compresi se del caso, ma senza che la disillusione corroda anche quell'ultimo, solo, personale strumento dignitoso con cui provare a riprendervi qualcosa di tutto ciò che vi fu tolto o negato. La si può ancora chiamare arte senza cadere nel ridicolo, quell'ultima possibilità non concessa ma strappata, di dire qualcosa, se non di definitivo ed immortale, quantomeno di non prontamente vanificabile nel nulla spanto ovunque, che tutto inghiotte, capillare. Arte: la sola possibile linea di demarcazione tra un parola di accusa che inchiodi quel mondo alle sue responsabilità, alla sua miseria, e le inermi urla disarticolate di uno dei tanti barboni senza più volto né nome, stesi su grate o negli atri di stazioni. Altro dall'arte, qualora dovessero già allettarvi ammiccanti, la cultura, il potere, il prestigio sociale: quelli, come i ricoveri per pazzia, come i fogli di via, non dipendono da voi ma dal mondo, sempre. Che, nella sua inettitudine, non è escluso possa decidere di tributarveli - in fondo, esso poggia su persone e, per quanto sedate, queste conservano una tenace, insospettabile tendenza alla riconoscenza, quando non all'idolatria, verso chi gli venda una verità su di loro, quale che sia. Ad ogni modo, seppure quel tributo ci fosse, il vero artista sarà già oltre la miseria della gratificazione che ne deriva o, meglio ancora, sarà già morto. Arte: nient'altro che riuscire a guardare cosa c'è, raccontarlo, anche senza mai capire cos'è. Scriverne, dipingere, scattare, o quel cazzo che si senta, in sé, non di saper ma di dover fare.   

15.7.11

CROLLI

Come speculazioni finanziarie, 
freddo richiamo di viscere
all'accumulo senza perdita né rischio

Dita secche, avide,
stecchi spogli d'ogni ricchezza reale,
queste morte vite, ostinati a trascinare.

14.7.11

GENDER RACISM

Si chiosa con esibita eloquenza che il maschio è incessantemente eccitato.
Si tace con colpevole ignoranza che i suoi genitali, dolorosamente pendenti,
portano l'involontario fardello dell'iniziativa riproduttiva.

Niente di più artificiale del concetto di naturale.
La nostra vita fisica ed interiore è infatti fondata, sviluppata su un progressivo indebolimento ed alterazione di ogni elemento naturale, sino alla sua eventuale negazione.
Ne discende l'iniquità di ogni giudizio e gerarchia di valore attribuiti arbitrariamente alla specificità strutturale maschile e femminile. Che pure sono complementari ed entrambe, ancora, essenziali ad una riproduzione della specie che possa dirsi naturale.
O ancora, il subdolo razzismo sociale che subordina il richiamo sessuale, la legittimità anche della pura pulsione, ad un giudizio eugenetico di valore estetico. Giovinezza e bellezza quali requisiti imprescindibili per poter provare a rivendicare una qualsiasi soggettività erotica, e dunque esistenziale.

13.7.11

SE LE MACCHINE INVESTISSERO GLI AVVOCATI CHE INVESTONO IN MACCHINE

In questo, c'è stato un poco di imprudenza da parte tua...”


Per taluni, in questo paese ci sarebbero troppe macchine: nascono nelle fabbriche che talaltri vorrebbero delocalizzare. Le macchine, insieme con le mura domestiche estremo, angusto teatro di parola dell'autismo sociale, noto come individualismo dalla sociologia trentina anteriore ai pettirossi da combattimento, si inerpicano lungo mulattiere note come segmenti di mercato dalle pubblicazioni tanto rassicuranti e care a chi auto e donne le conosce, tendenzialmente, dal di fuori. Ma, prevedibili quanto i loro padroni, le macchine recitano sempre gli stessi ruoli: quelle vorrei ma non posso, quelle da timidi pezzenti, quelle non ci sono cazzi: di esclamativo lusso! La misericordia, poi, del Mercato, ultimo credo non rivelato, fa sì che da un finestrino a manovella quasi a nessuno sia mai negato fantasticare un cruscotto, come un decollete, vellutato. 
Per talaltri, in questo paese ci sarebbero troppi avvocati: nascono nelle università che altri, o i medesimi, talaltri vorrebbero privatizzare. Si tripartiscono anch'essi coerenti, puntuali, come quelle trovatelle dei concessionari: ereditieri indolenti, zelanti aspiranti, anche noti come innati praticanti, e smarriti, incauti passanti. I primi, come non stimarli, si adoperano con invidiabile talento naturale a protrarre il più che sia possibile la vestizione della toga parentale, i cui prestigiosi benefici sociali già da tempo godono elegantemente con quel gusto unico, sfuggente che dà il non dover sudare ma al massimo dissipare, che è peculiare del privilegio natale. Sui secondi, lascio alle personali inclinazioni, luterane o tridentine, il giudizio circa il sacro fuoco stakanovistico; personalmente, trovo il ruolo più aderente di un Velatissimo sul gentil sesso, che immolerebbe così il proprio corpo in forma più compiuta, nonché proficua. I terzi, infine, banalmente atterriti in egual misura dalla prospettiva di utilizzare, un giorno, ciò che stanno, diciamo, a studiare; di fare altro, con la beffarda iperqualifica stoicamente conseguita; fare niente, con ciclico avvicendarsi di sollievo ad angoscia a nevrotico senso di colpa. Personalmente, fu un approdo miracolosamente scampato, l'avvocatura. Mi bastarono i primi, imprudenti passi di avvicinamento dai buoni consigli instillati insieme con i già anemici idealismi all'indomani della maturità ridicolizzati, sino alle pacche di paterno realismo a scrollare le ultime stremate illusioni congedatesi come conoscenti subito dopo l'alloro da dottore. Ma amo ricordare i casuali compagni solidali lungo quel cammino di volontaria penitenza; gli approdati al patrocinio legale, dopo il lungo peregrinare, amo credere con la stessa indolenza della lontana immatricolazione. Delle tre specie, appartenni all'ultima, e se pagai come loro il fio d'una intima non appartenenza dalla prima mattina del saggio di profitto in un cinema, ci spartimmo pure l'unico possibile punto di osservazione; sospesi a tempo indeterminato, come timidi esistenziali, in quel limbo che conosce, dell'atto, solo la pura intenzione: fermandosi un istante prima, quale che sia la causa interiore, per incapacità di adesione a quella discutibile ma perentoria realtà, generata dall'intento fattosi azione. Ed infine, tra quelli che non ebbi accanto ma ben saldi in cuore e negli occhi troppo belli, quelli dell'immaginazione, i Ginsberg, i Lenin, finanche i Palazzo; tra quelli, ben più fecondi e morali d'una Grundnorm kelseniana, ricordo con fraternità particolare il bibliotecario della sala studio dove flagellai di codici non aggiornati i miei pomeriggi più raggelanti tra quelli assolati: Paolo, Orso per noi pavidi ma creativi. Ad occhio, sempre rispettosamente sfuggente, un buon 120 chili d'uomo, come pure un bel 100 e passa nel cassetto, una figlia cresciuta chissà dove, il litio che ormai non fa più quell'effetto, occhi persi come lacrime, come quando fuori piove.

12.7.11

L'ALBATRO

Pensa prima,
solo, in rima.
Conduce all'ovile, nei versi
gli umani moti, persi.

10.7.11

VISCERE

Come ad uno sguardo proustiano
la montagna della mia infanzia 
è aria di neve, inebriante
fumo di carburante.

Ieri, nella piazza del duomo
di una cittadina di provincia italiana
per la prima volta nella mia vita, ho visto
dei giovani corpi sfilare in costume.

Ieri, per la prima volta nella mia vita
ho sentito nelle viscere,
ho visto, capito
che per me, qui, niente più c'è da fare.


9.7.11

NARCISO, ANNO ZERO

Se stenti a sostenerti
riflesso nello specchio,
difficilmente ti verrà duro
se non invocando un qualcuno.

Delegando, il tuo cazzo inutile, 
la propria gratificazione, 
a cazzi altrui 
l'onere della penetrazione.

8.7.11

ADERENZE

Quanto ti manca, l'amore?”


A tutti gli amanti,
Sin dagli ultimi,
i miseri amanti carnali,
a tutti gli amanti
una grezza tenerezza
è concessa.
Una tenerezza primordiale
cosparsa di pietas sulla loro pelle.

Nata selvatica dal caldo richiamo
che avverte nel suo simile l'umano.
Cresce rigogliosa nel tepore dell'adattamento,
in ciò che chiamiamo vivere quotidiano.
Muore lenta e implacabile nell'abitudine
seguendo la cruda sorte del desiderio,
invasa dalla sua stessa necrosi
che non sa reincarnarsi, farsi amore.

Nello strappo netto, bruciante, asciutto
di quell'istante senza tempo
veste d'un nostalgico rimpianto
lo strazio egoistico del distacco.

Ma solo a pochi,
Solo agli amanti chiamati, oscuramente
a librarsi oltre la propria gabbia carnale
è dato quella raffinata, profonda 
tenerezza incontrare
Che li liberi, nella svelata irrilevanza,
dalla loro condanna mortale.

E' questa l'unica, salvifica 
tenerezza interiore.
Tenerezza generata dall'istinto di protezione,
la sola che possa condurre all'amore.

Mia esangue carnale amante,
La tua compiuta aderenza sedante 
al nucleo primordiale, la tua iniqua origine sociale,
sin da principio ti ha spogliata 
d'ogni pietosa fragilità all'incontro della mia carne 
nient'altro che desiderante.

Recidendo ogni sperare che osasse
oltre un'operosa complicità, una solerte comunione
- quiete irrilevante, pace estranea al puro amore.
Negando ogni informe invocata sublimazione
dell'istinto carnale in istinto di protezione.

Il desiderio di te, sin da principio
nella mia carne confinato, mai
mai la tua avrebbe penetrato.
Spenta la tua sete di preda,
saziata la mia fame di predatore,
nulla di noi è rimasto: feto morto,
quel nostro amore.

Mai nato, come le mie parole, mie paure:
dissociazione, omologazione.
Prigioni vuote, d'eterno ignote
al tuo florido grembo sterile 
d'ogni pudica, vitale esitazione.


Per te, 
che non ho conosciuto


7.7.11

VACCHE SACRE

Adolescente, come fosse un'attenuante,
consegnai ad una commessa conosciuta di recente,
con esibita indifferenza da consumato perdente,
qualche lirica abbastanza struggente
da conferire al mio esistenzialismo avvilente
un qualche tono post-decadente.

'Tu che frequenti tanti libri, mi piacerebbe sapere che ne pensi...'
Accolse l'investitura tradendo, incongruamente vezzosa, una fiera responsabilità.
In questo paese, le donne cui si rivolge la parola senza plausibile, evidente motivazione, sospettano, con timore o speranza, che le si voglia scopare, amare o, compendiando con inevitabile approssimazione entrambe le eventualità, che le si voglia usare: ciò indipendentemente dal loro personale patrimonio erotico. All'epoca, quando ancora mi affannavo a credere qualcosa, ero convinto che questo fosse uno dei più evidenti ed ingombranti effetti collaterali del femminismo e, più in generale, dei movimenti di liberazione sessuale, emulati giudiziosamente, nel mio paese, con un occhio sempre complessato ai modelli internazionali ed una totale mancanza di senso del pudore o anche solo del ridicolo.
Quanto a lei, rasentava l'obesità, come volevasi dimostrare a convalida di quelle sbrigative conclusioni sulle dinamiche tra generi. Mentre io al momento sfuggivo alla casistica di quel brutale teorema; non per una qualche illusoria aristocrazia fisica o morale, come avrebbero dimostrato puntualmente gli anni a venire, ma semplicemente per un circostanziato status farmacologico: da qualche tempo ero regredito nella beata impotenza infantile del litio e dunque, sessualmente, ero come non pervenuto.
Ad ogni modo, la mia stravagante proposta culturale fu salutata da una risposta troppo tempestiva per non farmi temere, a mia volta, un prevedibile secondo fine. Confermava i miei timori l'articolato giudizio critico elaborato, direi, nel giro di un paio d'ore: riassumibile senza eccessiva approssimazione in un laconico 'Hai un linguaggio forbito...'
Provai, colpo d'ala di disperata disinvoltura, a sorridere amabilmente che non avevo capito, che avrei gradito delucidazioni su quel termine così... forbito.
Lei niente, non colse ironia né tollerò rallentamenti al corso che aveva deciso per quegli eventi. Farfugliò spazientita qualcosa d'ancor più legnosamente zelante, poi venne al dunque: avremmo pranzato insieme, il mercoledì seguente? Precorrevo già tremante gli ovvi sviluppi, ma ero troppo solo, allora, per non concedere la mia eventuale lingua o poco altro, m'imponevo, a chi mi degnasse d'una qualche parola.
Al dunque venni tardi, almeno così mi disse. Se n'era già andata. Troppo puntuale o forse preventivamente demotivata, magari già allettata da qualche nuova preda designata. Smise rapida di simulare gentilezza, sputando a stizzito congedo sparute rivendicazioni tardo-femministe, sul genere la condizione della donna nella sociologia da riviste. Incassai, se non con stile senza repliche scomposte, almeno così amo ricordare.
Seppi poi che aveva trovato, pochi anni prima degli eventi, all'incirca alla mia età di allora, sua madre suicida, forse classicamente impiccata. Fugai con qualche senso di colpa sempre disponibile a quel tempo, il già vano astio fermentato.
Ma negli anni a venire fui costretto ad incontrarla ancora, a salutarla addirittura: si accompagnò infatti a gente che mi trovavo a bazzicare. Sempre grassa e, proporzionalmente stando ai fatti, desiderata. Raggiunse poi l'apice, di volume e forse anche d'appetibilità, riproducendosi, come d'intramontabile tendenza tra le sue simili nell'incombere della data di scadenza. Le augurai, con pari trasporto interiore a quei ruminanti al pascolo, d'aver afferrato, termine poco zen ma decisamente appropriato alla natura dei suoi appetiti emotivi, la beatitudine tanto agognata, nella definitiva consacrazione allo status di vacca sacra.

6.7.11

SEI TU

Li vedi quei bambini? Giocano, ma quel gioco è come la vita.”


Qui, negli occhi d'un padre mancato,
in questa inutile, forzata maturità appannata
c'è una bambina, punita dalle alterne sorti del gioco,
che apprende giudiziosa l'animale ferocia maschile,
comprende l'elementare, necessaria crudeltà umana.

Qui, una bambina oppone fiera il suo petto ideale
alla prominenza ormai estranea dell'addome.
Soffoca nel coraggio i singhiozzi che la attraversano,
sfiora con pudore le lacrime che la solcano.
Non a celare né rinnegare, solo scansare
qualcosa che al passato è da consegnare.

Lì, ad un tempo che più non le appartiene.
Un tempo, sente, andato per non tornare più:
cui sarebbe stato vile, vano restare aggrappati
come troppi bambini ciechi ed ostinati.

In questi occhi, sei tu quella bambina.
Tu, oggi, dove ancora posso nutrirmi, sfiorarti;
tu, ieri, di cui solo illudermi, immaginarti.

Sei tu nei miei occhi,
tenerezza immensa a sciogliere il petto,
marea tiepida che sale in cuore.